Lead me to my Promised Land

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  1. Moloch
     
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    SPOILER (click to view)
    La scena si colloca in maniera cronologicamente successiva agli eventi di Einherjar così come The Masque of the Red Death.

    Celentir, due anni prima

    Viaggiavano ormai da diversi giorni, i crinali di montagne grigie che si inseguivano nel profilo di una coda di rettile atteggiata a suo unico orizzonte; la strada era scoscesa, dissestata - forse un sentiero per muli, ed il calesse sul quale era stato costretto singhiozzava ad ogni asperità di quella terra maledetta regalandogli fitte dolorose quanto colpi di verga. Aveva provato a dormire, una volta, rannicchiandosi supino sul legno marcio. Pessima idea. Una volta alzato, si sentì come se qualcuno avesse annodato le due estremità della sua colonna vertebrale, forse -gli dissero gli spasimi- fra la quinta e la sesta vertebra. Dopo quell'esperienza, rimanere seduto gli parve un compromesso molto più accettabile.
    Quando il cavallo impose loro una sosta forzata per abbeverarsi, decise che qualche passo sarebbe valso bene ad allontanarlo da quel puzzo di tela e sego, e caracollò giù dal carro maldestro come un infante. Lanciò uno sbadiglio che fu potente ed intenso quanto una catarsi, e tentò la sponda dell'affluente con uno sguardo ancora cisposo di sonno: non riconobbe quel tratto fluviale, così come non riconobbe il circondario scuro di pioppi ed ippocastani, ma a rapirlo fu, più di ogni altro, l'uomo che gli restituì lo sguardo dall'aldilà speculare del velo d'acqua.
    Era un ragazzo antico, scarno e deperito, dotato di una inesprimibile regalità che si deduceva dal barlume intelligente nascosto fra le concavità delle occhiaie e lo stagno torbido delle pupille, censurato da palpebre sollevate a stento. Ciocche albine intrise di umori e polvere gli galleggiavano attorno al capo in un'aureola di fantasmi indolenti, ingaggiate da un potente scirocco; erano la sua corona, quei viticci candidi, l'unica corona che a Moloch di casa Aldeym venne mai permessa. Moloch di casa Aldeym non pretendeva di essere abbastanza forte né dignitoso da poter portare una corona in capo, ma qualcun altro
    lo aveva preteso per lui.

    "Vero, lord padre?"
    Il lord suo padre non rispose. Non lo aveva mai fatto.
    Raccolse le palme a coppa e le immerse avido nel torrente, sentendo il refrigerio che gli ruscellava fra le dita in rigagnoli benedetti; vi immerse il viso, e strofinò fin quando non fu certo di aver deterso ogni traccia di torpore. Una mano trovò la sua spalla, e la strinse quasi con gentilezza.

    "Dobbiamo andare."
    Rassegnato, fece per alzarsi con malagrazia per poi prodursi in un secondo sbadiglio, meno energico del precedente. Annunciandosi con un borbottìo sommesso, si voltò ad affrontare il suo unico compagno di viaggio.
    Era una figura atipica, il suo cicerone. Una figura totalmente incapace di ispirare affetto e -men che meno- fiducia, ma dotata al contempo di un qualcosa di indefinibile che rendeva impossibile dirgli di no. Aveva tentato con gli occhi glauchi, gli zigomi ossuti, le labbra slavate e sottili come appendici verminose, ma era un'inanità, un aborto deduttivo. Era il colore dei suoi capelli a dargli quella capacità senza nome, capelli di un rosso ammiccante, peccaminoso, quasi dotato di vita propria dai barbagli di luce sanguigna che vi si riverberavano sopra in liquidi strali metallici.
    La sua voce era ruvida quanto uno schiaffo guantato di ferro, ed altrettanto spiacevole. Quando cadde la disgrazia del loro primo incontro, dita gelide gli strinsero il petto fin quando lui non acconsentì a seguirlo, incantato e terrorizzato dalla crudezza di quel baritono sepolcrale. Il fatto che ne avesse paura, tuttavia, non significava certo che gli credesse:
    'terra promessa' era un'espressione dal sapore acre delle bugie ben studiate, le stesse bugie che avevano tributatogli i barbogi della torre bianca un'eternità prima, quando si era rivolto loro per chiedere conferma su quanto era diventato. Ne aveva una collezione, di quelle bugie, ognuna di esse didascalizzata da un nome diverso. Il 'C'è ancora speranza' di maestro Michel continuava a rimanere fra le sue preferite, incalzato in seconda posizione dall'ormai caro 'Non è poi così grave' di un magister alto e scavato, il cui solo ricordo gli dava un brivido freddo che si allungava sino alle sue estremità; ma non c'era tempo per la torre bianca, non c'era tempo per il mago straniero e per le sue risate e per il lord suo padre. L'uomo in rosso gli aveva detto di andare, e lui sarebbe andato.
    Andarono, insieme. Ancora una volta.


    "Quindi?"
    "Quindi cosa?"
    "La stessa cosa di ieri. E del giorno prima."
    Il suo accompagnatore trasse un lungo sospiro, e socchiuse gli occhi come per esorcizzare una fastidiosa emicrania; ad infastidirlo, in realtà, non era che una domanda ricorrente. Una domanda alla quale aveva opposto una strenua, cocciuta resistenza per tutta la durata della loro collaborazione coatta. Questa volta, se non altro, gli risparmiò di proporgliela: la scavalcò con un ringhio sardonico, anticipando il suo ennesimo perché
    "E' inutile che te lo dica. Non mi crederesti."
    "Mettimi alla prova."
    "No."
    "No?"
    "Già, no. E' un monosillabo, nemmeno troppo
    difficile da comprendere.
    "
    "Ma..."
    "Senti." E torse rabbiosamente le briglie, imponendo al castrato una battuta d'arresto. "Se ti dicessi che uno stronzo platinato mi ha spinto giù da un cornicione per catapultarmi in una carnevalata noir che prevedeva come momento clou la mia testa che rotolava per terra come una palla di stracci, e che quello stesso stronzo intende riservare a te la medesima galanteria, tu, onestamente, mi crederesti?"
    "Onestamente..."
    "Appunto."
    Quelle tre sillabe sancirono la fine della conversazione, e lo schiocco acuto
    delle redini intervenne a sottolinearlo,
    assoluto, crudele.


    Il verde della flora fluviale digradò nei chilometri in un grigio vecchio, corroso, cattivo di muffa e fessurato da rughe profonde, rughe che si riflettevano sulla sua sterminata superficie come una orribile ferita frastagliata. C'erano pilastri, adesso, a punteggiare il suo circondario, scompaginati in una lunga teoria che preludiava altri importanti spettri di granito: la foresta di pietra si aprì in un piazzale ellittico arabescato da disegni erosi, la cui tempera era ormai nulla che si accoppiava col vento per un valzer di polvere oro e borgogna. L'uomo in rosso smontò tradendo un'agilità insospettata, e lo invitò con lo sguardo a fare altrettanto.
    "Eccomi, finalmente." E spalancò le braccia, comprendendo le rovine nella sua stretta. "E finalmente, pare che tu non abbia più niente da dire. O forse no?"
    "Dico che il mio pitale vale quanto e più di questo, come 'terra promessa'."
    "Sei ingiusto, damerino. Ed anche stupido." si concesse qualche secondo per assaporare il gusto di quell'insulto, che gli occhi dicevano essergli dolcissimo. "E' 'eccomi', non 'eccoci'. Questa, per te, non è che una tappa intermedia. Una tappa oltre la quale io non posso, né voglio accompagnarti."
    Per un breve istante, lo sgomento ebbe ragione della rabbia "E allora chi.."
    "Oh, chi. Chi!" Latrò una risata graffiante, soppesando una possibile risposta. "Vorrei poter dire un amico, ma temo che sarebbe fin troppo pretenzioso. Amico...di amici, se così ti compiace."
    La cortesia parodiata lo fece sorridere di un sorriso raro, un sorriso che gli fece apparire quegli zigomi e quegli occhi e quei capelli meno inquietanti di quanto credesse. Nel confrontarsi con lui per quella che pareva essere l'ultima volta, fu addirittura tentato di ringraziarlo: la sua schiena non tardò a protestare in risposta, e tanto bastò ad accantonare il proposito. Quello -e lui ne era convinto, non era comunque uomo da salamelecchi.
    "Magnifico. Porterai i miei saluti allo stronzo platinato?"
    "Solo se tu porterai i miei a Gabriev Disith."
    Ed esplose in un vivido flash amaranto, festoni di luce e luminarie serpentiformi che si partivano a gran velocità da dove solo un attimo prima esisteva il suo interlocutore; abbacinato da quel lampo scarlatto, portò istintivamente l'avambraccio destro a protezione degli occhi, scoprendosi in ginocchio ancor prima di essere certo che il fenomeno si fosse esaurito. Dischiuse le palpebre come un bambino spaurito, terrificato da cosa sarebbe accaduto quando quegli esili veli di carne avrebbero terminato la loro lenta parabola. Si detestò. Il castigo di una vita eterna aveva instillatogli in profondità un assoluto disprezzo per la debolezza morale, specie la propria. Non voleva quella corona, non la voleva, ma doveva averla; ed una corona va portata con dignità.
    "Vero, l.."
    "Non risponderà"
    Una voce atona, remota come un eco fantasma, ma venata da una gentilezza dolente che riuscì ad ispirargli un raro senso di pace. Scrutò quella voce con gli occhi dell'anima, e scoprì con sorpresa che era una e trina: il mondo -il suo mondo- si colorò di rosso, viola, vaniglia e tormalina scura, per poi risolversi in un telo di quarzo bianco che lo avvolse come una crisalide di cristallo, sconfinata e bellissima. Fra le sue pietre, fra le sue gemme, solo tre vividi stralci di colore: un colore eterno, indefinibile, che si tripartiva in segmenti dal contorno incerto. La visione bastò a togliergli il fiato.
    "No. Non lo farà."
    Nel replicare si scoprì straordinariamente calmo, quasi
    parlasse attraverso il corpo di un altro.

    "No."
    Concordò la voce, perentoria.
    "Vieni dove potrà ascoltarti.
    Vieni."
    "..."
    "..a reclamare la tua terra promessa."
    Una trazione brutale lo trascinò verso l'alto, in un inatteso moto di ascesa. Fili invisibili gli costringevano le braccia, le gambe, il torace, trascinandolo verso l'incognita della promessa di uno sconosciuto. Uno sconosciuto appena esploso in mille strali di luce.
    Nonostante questo, nonostante tutto, non aveva paura: dopo tre secoli perfino la morte gli sarebbe stata felice, e lui l'avrebbe accolta come si conviene ad un vecchio amico fin troppo atteso. Sulle labbra, a malapena attraversate dallo spettro di un movimento, la pronuncia di un nome.

    "Gab...Gabr.." Gabriev?
    "Grazie."
    Chiuse gli occhi, e fu un paradiso candido.
    O forse un inferno privo di colori.


    ~
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    ~

    Si riebbe in maniera violenta, quasi assecondando una scossa di energia selvaggia ripercossasi sul suo intero organismo; nell'atto di sedersi, ancora vagamente rintronato dall'accaduto, scoprì un impaccio in prossimità delle cosce.
    "Coperte? Ma dove.."
    Le scostò con malgarbo, pesanti broccati ricamati in filo dorato, apprendendo non senza un certo sollievo di indossare ancora i suoi abiti. Fu colto da un capogiro a metà dell'impresa, e cadde carponi oltre il limitare del letto, stralci di lenzuola ancora aggrovigliati attorno alle caviglie come catene esotiche. Quando fu certo che l'impatto fosse inevitabile, mani gentili lo afferrarono per le ascelle esibendo una forza insospettata, e la sua fronte incontrò non il marmo, ma il petto del suo anonimo soccorritore.
    "Il mio lord alfiere ha forse avuto un malanno?"
    Lord alfiere?
    Alzò lo sguardo. Quella voce aveva
    molto di cui rendergli conto.


    Najaza, Castello nel Cielo

    Alcuni la chiamavano 'Incognita', la città-che-non-deve-esistere o lacrima edenica, mentre altri preferivano il suo nome originale, scritto -si mormorava- nella lingua degli antichi déi. Molti non la chiamavano affatto.
    E Najaza era, in effetti, qualcosa la cui sola esistenza continuava a rimanere imponderabile: un monumentale rettangolo di terra tendente dabbasso alla convessità di una piramide capovolta, piramide sulle cui pareti di humus e roccia e muschio si incontravano intrichi di radici più vecchie del tempo, ormai cristallizzate dal freddo in gelidi simulacri serpentiformi. Levitava ad un'altezza babelica stimata non inferiore ai quattrocento piedi - proprio come la sua seconda etichetta voleva immaginarla, non diversa da una lacrima celeste incatenata da un'invisibile prigione di stasi. Sul dorso, aguzzando lo sguardo, poteva intravedersi il rosso del tegolato che dominava il borgo, la cui geometria andava riflettendosi su buona parte dell'abitato civile. Il presidio urbano si apriva a ventaglio costeggiando le estremità dello sperone su cui poggiava in una apprezzabile simmetria, facendo sì che ogni edificio affacciasse su di una grande piazza naturale. Al centro esatto dell'acciottolato si ergeva un palchetto in marmo sul quale i residenti ammucchiavano pile ordinate di paglia e sarmenti, che ogni sera -in obbedienza ad un costume locale- si trasformavano in una immensa pira dai colori vivaci, irraggiante calore fin nella più lontana casupola o cantina. Ma non era il borgo né il festival del fuoco a fare di Najaza un presidio chiamato a entrare nella leggenda di Endlos, ma il terrificante delirio architettonico che si proiettava verso l'indefinito appena fuori dai confini dell'insediamento; il palazzo del lord alfiere era una mostruosità contorta di livida pietra rosacea articolantesi in cinque torri che erano cinque falangi, le cui unghie andavano conficcandosi prepotentemente nel grembo stesso del cielo strappando ad ogni movimento dell'isola frustoli di carne nubiforme. Il castello si apriva con un imponente fortilizio minore costeggiato ad ambo i lati dai baraccamenti delle guardie ordinate, preludiato da una mastodontica cancellata tutta istoriata a bassorilievi. La cinta di mura che comprendeva l'edificio principale al suo interno era impreziosita da due ranghi paralleli di ricchissime modanature, collocate poco al di sotto dei merli che guardavano al perimetro dei camminamenti. Due coppie di torri esagonali si lanciavano verso l'alto dai due estremi della fortificazione, picchettate saltuariamente da eleganti finestrelle a bifora e collegate fra loro da sparuti ranghi di ponti sospesi, orlati da complessi arabeschi di ferro nero atteggiati a ringhiere. Il mastio si ergeva al centro esatto della struttura, e constava in una torre a pianta circolare famosa tanto per le sue dimensioni quanto per l'ombra che disegnava sul paese, una lama scura che scandiva il tempo ed assorbiva la luce quasi fosse la grottesca imitazione di una meridiana. La sua cima non era visibile. Mai.
    Ma oltre il congresso di nembi grigi, oltre il buonsenso e la blasfemia prendeva corpo la sua sommità, i merli e le scanalature progettati per armonizzarsi nel profilo di una corona di luce bianca e aranciata che catturava costantemente il chiarore del giorno per commutarlo in scintillanti riverberi luminescenti. Appena più sotto, una grande finestra sagomata in omaggio al nome della torre stessa si apriva su di uno spazio vibrante, pieno di musica, dalle cui pareti effondeva a regolari intervalli un suono simile al battito di un ventricolo. Quello era il suono della Campana-Cuore, la residenza del lord, e dietro quel vetro non era ammessa che un'ombra.
    Un'ombra piacevole, dalla statura ascetica, che stava costringendo le mani congiunte dietro la schiena in un privato rituale contemplativo;
    pareva quasi dormisse, l'alfiere del nord, ma nei suoi occhi socchiusi c'era una intelligente consapevolezza di sé, adulterata da una sofferta concentrazione.
    Moloch di casa Aldeym malediva i suoi demoni, e amava farlo in silenzio.

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    "Oh, sei tu."
    Fu un sussurro fragile quanto un foglio di pergamena, incrinato dalla tosse: per quanto gli piacesse crederlo impossibile, il freddo della sua terra promessa era ben diverso da quello di Celentir, e scavava più a fondo dei muscoli e delle ossa, arrivando a scombussolargli l'anima. Se non altro, era una delle poche cose che poteva dire con certezza di aver mai condiviso col signore suo padre.
    Oltre alla bora costante ed al paesaggio monocorde, tuttavia, non aveva molto di cui biasimare il suo salvatore: l'intero castello -e trascorsi due anni ne aveva maturato una percezione concreta- rispondeva con precisione inquietante ad ogni suo desiderio, e la pietra stessa aveva estrapolato dal suo inconscio la proiezione immaginifica della casa che non aveva mai conosciuto, vista infinite volte attraverso i racconti della madre. Banebriar's Place si era creato per lui, e fu non senza soddisfazione che lo battezzò col nome del suo doppio originale: non poteva ancora dire se se fosse un magnifico dono o uno splendido carcere, ma quand'anche avessero voluto confinarlo in quella prigione dorata, aveva pur sempre l'eternità ad attenderlo. Avrebbe certo seppellito i suoi carcerieri, per quanto l'idea fosse una consolazione meschina.
    "Io e nessun altro, come vede il mio lord."
    Se c'era un neo nell'obbedienza che il maniero aveva finora tributatogli, se c'era una costante immodificabile perfino dalla sua volontà, quella certo si identificava nella persona del suo attendente: una presenza impostagli da un'autorità superna, che aveva col tempo imparato a conoscere come Rivenore, il castello centrale. La creatura era una clausola invisibile di quel contratto privo di parole che aveva stipulato pochi anni prima con una imperscrutabile controparte, clausola che probabilmente faceva capo a lui. Se il tutto si fosse ridotto ad un'imposizione veniale l'avrebbe anche tollerata volentieri, ma non era così: quel vicario portava su di sé il sentore del freddo che lo divorava dentro, e sembrava permeare di una coltre gelida ogni cosa su cui posava gli occhi. Persino il suo odore sapeva di freddo.
    La nuova giunta non attese un invito, e si abbandonò -pur mantenendo un sussiegoso contegno- su di una grande poltrona foderata in broccatello scuro, adagiando i gomiti sui braccioli e congiungendo i polpastrelli in un gesto meditabondo. Pur considerando l'inquietudine che la circonfondeva, la sua avvenenza rimaneva innegabile: aveva il corpo sottile di un adolescente, i seni acerbi che si indovinavano appena sotto la giustacuore in cuoio. Serici capelli di un metallico biondo argentato erano compresi in una treccia austera che arrivava a lambirne le scapole, esponendo un viso affilato, saturnino, le cui piccole proporzioni si risolvevano in una graziosità spesso disarmante ed in perenne contrasto con l'espressione incolore.
    "La gente mormora, mio lord alfiere. Mormora in continuazione."
    Prima di voltarsi ad affrontarla, volle concedersi un sorriso privato: era quasi un gioco, quello che si apriva con quella frase, un gioco in cui lui non doveva fare altro che ascoltare. Si volse verso la camera, rassegnato; nel movimento, colse con la coda dell'occhio una sagoma oblunga assicurata alla cintola della visitatrice.
    "Porti ancora quella spada di legno. Temi forse di tagliare qualcuno?"
    L'attendente fece un gesto vago, come per scacciare fisicamente l'insinuazione.
    "Il mio lord alfiere si sbaglia. Non ho mai avuto bisogno di tagliare qualcuno, il che è diverso."
    Moloch rabbrividì, augurandosi che la sua interlocutrice non lo avesse notato. Che lo avesse fatto o meno, ebbe il buon gusto di non sottolinearlo.
    "Parla. Ti ascolto."
    "Il signore dell'est, si dice, ha chiamato a sé un gregario del tutto particolare. C'è chi sostiene sia un démone, chi un cavaliere invincibile che ha sostato negli inferi per temprare sé stesso. La cosa le concerne?"
    Non si scompose. Aveva imparato talmente bene a dimenticarsi del mondo sotto di sé che spesso dimenticava anche dei suoi pari grado; non si era mai interessato a loro oltre quanto gli era stato permesso dalle chiacchiere dei suoi notabili, ma ne sapeva comunque abbastanza dal folklore nativo per diffidare di quanto lo stesso gli riferiva: non era la prima volta che l'alfiere dell'est veniva accusato di fare consorteria con démoni e spettri, ed alcuni mesi prima, a pranzo, il suo castellano gli aveva raccontato di un gigante mostruoso che faceva da sentinella al suo presidio, talmente forte da poter schiacciare il cranio di un uomo come fosse un acino d'uva. Ricordava vagamente che l'alfiere del sud era un campione delle fosse da combattimento di Merovish, la città sotterranea, e nulla sapeva del signore dell'ovest. La cosa non era mai andata a detrimento del suo buonumore.
    "E l'inverno è freddo e l'acqua è bagnata; no, Livane, no. Non mi concerne."
    Nel pronunciare il diniego, la sua memoria andò alle dicerie terribili che circolavano su Gabriev Disith: "La sua corte è la corte dell'inferno" o "è stato vomitato dal limbo, e intere città piangono per causa sua" e addirittura "Il suo boia è il diavolo in persona, e taglia teste brandendo una spada di cristallo". Istintivamente, portò le dita a serrarsi sull'elsa della sua spada, di gran lunga più straordinaria: forse, in un futuro imprecisato, avrebbe potuto incrociarla con la Giustizia di Rivenore.
    Ma Gabriev Disith era innocente, così come lo erano i signori alfieri. La vox populi, d'altro canto, non aveva risparmiato
    nemmeno lui dalla sua aneddotica velenosa.
    "C'è altro?"
    "A ben pensarci..." la frase rimase monca per alcuni secondi, sospesa nello spazio vuoto fra lui e la donna "..ci sarebbe, si."
    "Stamane, un dignitario straniero ha chiesto udienza con lei; quando è stata negatagli perché refrattario ad annunciarsi come si conviene, si è arroccato nel cortile interno senza dare spiegazioni. Non appena i guardiamaghi hanno chiestogli cosa stesse facendo, lui ha semplicemente risposto 'aspetto, non è certo il tempo che mi manca'. Ha domandato anche di un uomo in nero dai capelli rossi, con una certa animosità. Pareva piuttosto contrariato."
    Seguì uno di quei casi tragicomici in cui la parola scavalca il pensiero, e solo dopo ci si rende conto di cosa è realmente uscito dalla propria bocca.
    La sua, in quel momento, era spiacevolmente arida.
    "Il colore dei suoi capelli?"
    "Biondi, mio lord. Una pigmentazione particolarmente chiara"
    "Biondo platino?"
    "Con buona approssimazione."
    Moloch di casa Aldeym rise di un riso segreto.
    "Sai ancora come usarla, quella spada di legno?"
    "Assolutamente. Il mio lord ne dubita?"
    "Dio me ne scampi. Volevo solo un'assicurazione
    sul mio futuro.
    "

     
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