Punti di vista

Scena gdr con Malice e Chevalier

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    Cado spesso un poco dalle nuvole.

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    Il prato fuori dalla finestra gli trasmetteva tranquillità, con il suo dondolare scostante e la sua varietà di colori: il fatto che poi il vetro distaccasse i due mondi rendeva il tutto ancora più gradevole, perché gli dava l’idea di qualcosa di diverso – come uno status ideale di pace a cui aspirare. Visitava di rado i territori che precedevano le spiagge, unica macchia di natura una volta usciti dal presidio della macchine di Klemvor, per via del lavoro che lo teneva ancorato nell’illegalità dei bassifondi della città. Alcune volte – poche – capitava che sentisse come un groppo alla gola, un senso di nostalgia di cui tanto sentiva parlare ma che gli suonava così poco familiare: quando succedeva se ne scappava in quel borgo tutto legna e contadini a bere e a pensarci su.
    Pensare a cosa? Si sentiva un po’ stupido, non capiva come mai un qualcosa di non scientifico richiedesse ragionamenti così intricati; per di più nessuno aveva mai inventato un preciso metodo per affrontarli. Il fatto di sentirsi in qualche modo spinto al ricordo da qualcosa di illogico era un segno di impotenza della sua scienza: per questo, addirittura, qualche anno addietro tentava di sanarlo, ma ci mise poco a realizzare che il fattore umano era insormontabile. Ormai si limitava a trascinarsi in un vagare che lasciava sì l’amaro in bocca, ma che apriva anche i polmoni e la testa d’aria, preparando il corpo ad una nuova immersione nell’abisso della megalopoli.
    Si era comunque portato un compitino da casa, qualcosa per svagarsi un po’ tra un excursus nell’irrazionale e l’altro. Sul tavolo del piccolo bar erano disposti a casaccio diversi fogli, sui quali aveva tracciato bozze contornate da appunti in una grafia pessima: il tutto finiva per risultare affascinante, sebbene la matassa di schizzi e correzioni fosse incomprensibile ai più. Queste almeno le conclusioni che trasse osservando le espressioni di stupore dei bifolchi che aveva d’intorno: ad ogni linea tracciata gli si avvicinavano, quasi vedessero in lui una minaccia di quella tecnologia da cui si erano voluti tenere ben distanti.
    Ce n’era uno che ad Ossido era parso il capo. Nel corso delle sue ultime visite aveva teorizzato un parametro secondo il quale classificare l’importanza dei contadini all’interno della loro primitiva scala gerarchica: nell’ambiente della taverna - concluse dopo attente sedute di osservazione - contava quanta barba avevi e quanto curva era la tua schiena in rapporto alla larghezza delle spalle; ogni carattere che li avvicinava ai primati li rendeva “migliori”. Questa specie di maschio alfa, per l’appunto, prese l’iniziativa.

    « Ehi tu, con quell’enorme… »
    Il rumore apparve e scomparve rapidamente - il cuoio dell’ampia fondina accarezzato dal fucile. Ossido inarcò un sopracciglio: il resto della faccia era contorto in un’espressione di certo non rassicurante; puntato il fucile alla testa del grassone, rispose prontamente:
    « …naso?! Come ti permetti di… »
    « Veramente io volevo dire “pistola”. »
    Ci fu un attimo di silenzio, terminato il quale il tecnocrate ripose Sussurro e riacquistò (forzatamente) la flemma dimostrata nelle ultime ore. Questo fece evidentemente scattare nella testa del bestione un qualche meccanismo rituale da mammifero: per poco non si mise anche a sbavare, tanto era innervosito.
    « Butta quei tuoi cosi da cittadino oppure tornatene in città, non vogliamo i tuoi giocattoli. »
    « Butta quel tuo corpo da scimmia oppure tornatene in gabbia, non voglio le tue zecche. »
    Approfittò dell’attimo che precede solitamente lo scatto d’ira per bere un ultimo sorso di birra, quello che un po’ stucca (quando ne hai già bevuta abbastanza, ma non troppa), ma che prepara con dolcezza all’attesa del successivo boccale.
    « Adesso ti… » cominciò quello, gettandosi a testa bassa contro l’uomo di città; evidentemente la giornata non era stata concepita per le lunghe discussioni, dato che di nuovo non riuscì a terminare la frase. Ossido, dal suo fidato guanto, fece partire una piccola fiamma: niente più di un gioco pirotecnico, ma per stupire delle bestie sarebbe bastato.
    « Quello che voglio dire è che se tu non rinunci alla tua forza bruta, io non lascerò i miei cosi. Ad ognuno le sue armi, ti pare? »

    Bofonchiando qualcosa il branco si allontanò, lasciandolo libero di riprendere il suo lavoro. Dopo qualche minuto in cui la penna si spostò più volte lungo il foglio, ma senza mai tracciare alcunché, il volto del tecnocrate mostrò un certo grado di esaltazione, tanto che per poco non urlò “Eureka!”. Cerchiò una parte ben precisa del corpo di quell’aggeggio meccanico: per un occhio esperto sarebbe apparso palesemente a quel punto che l’ammasso di fogli rappresentava una mappatura di una bestia cibernetica dei dintorni.
    Si mise in panciolle sulla sedia, sprofondando con la schiena lungo il legno scomodo: cigolò un po’, ma non si spezzò. Ossido se ne stette lì, con l’aria di uno che vedeva tutt’altro che uno sporco soffitto, là dove posava gli occhi.

     
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  2. Le Chevalier
     
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    Sebbene non fosse umano, non del tutto almeno, aveva passato così tanto tempo tra la genia di Adamo da sentirsi parte integrante di quel mondo e dei suoi ingranaggi. Stava visitando il presidio dell'Ovest richiamato dalla presenza del mare. Come una figura nostalgica di un qualche eroe romantico uscito fuori dalla penna di qualche scrittore fissava lo sguardo all'orizzonte lì dove cielo e mare si univano formando un tutt'uno di cobalto. Non c'era da stupirsi che provasse emozioni così intense; quando trascorri il quantitativo di due vite "umane" a solcare gli oceani come corsaro il mare ti rimane dentro. Senti il beccheggiare dello scafo sotto i piedi anche se stai camminando sulla terra ferma, agogni l'odore salmastro delle onde come un affamato quello del pane appena cotto, lo sguardo cerca di nuovo quegli spazi immensi e desolati dove solo acqua cristallina è in vista, nessuna megalopoli, nessuna montagna...ci sei solo tu e il mare e, a volte anche una volta stellata che, se ne sai interpretare i segni, ti guida come una madre amorevole meglio di qualsiasi bussola. Pensava a tutto questo Draka mentre nella sua mente si affacciavano suoni indelebili come lo sciabordio delle onde, lo schioccare delle vene e il suono degli stivali sugli assisi di legno del ponte. I suoi pesanti stivali di cuoio nero affondavano nella sabbia. Tutto in lui era di corvino colore, dagli occhi ai vestiti lavorati in seta, questo creava uno strano risalto con il suo finemente cesellato viso eburneo. Le falde della giacca si agitavano pigramente mosse da un flebile alito di vento che gli scompigliava anche i lunghi capelli racchiusi in una coda da un nastro -nero anch'esso-, le mani erano nelle tasche dei pantaloni e le maniche della camicia e del soprabito erano tirate su a scoprire gli avambracci. Forse per nostalgia di quei tempi stava adottando un modo di fare volutamente scanzonato che invece di stonare con la sua aria da nobiluomo non faceva altro che condirla d'interessante mistero. Una spada pendeva fiera sul suo fianco sinistro e la mano destra ne accarezzava l'elsa di pelle con la stessa cura con cui si accarezza la schiena di una donna amata. Ritemprato nello spirito e nel corpo il superstite millenario decise che era ora di recarsi a bere in una delle taverne che si ergevano nelle vicinanze, le definiva taverne per il semplice fatto che era un gentiluomo ma il termine "bettole" sarebbe stato di certo più appropriato, con movimenti elastici attraversò la spiaggia e poi la strada sterrata dirigendosi verso il quartiere del porto, adocchiando ogni tanto le insegne, andando a "naso" ne scelse una che non appariva troppo malandata: due soli piani di assi squadrati e scolorati dalla salsedine e dal sole, più larga che alta. Ne lesse il nome in lettere rosse sbiadite " Il Fiociniere", il nome almeno era meglio di molti altri visti così entrò scostando con la mano destra il pesante battente sotto il quale filtrava una tenue luce, un leggero scricchioliò si sentì segno che i cardini attendevano una bella oliata, non ci fece caso, varcò la soglia venendo catapultato da un mondo di riflessioni vagamente nostalgiche e una serata nient'affatto che caotica in una babele di voci e suoni, ove ognuno urlava per sovrastare la voce di chi gli stava intorno o il cozzare dei bicchieri, fece un sorriso ironico ritrovandosi ancora una volta in un'ambiente familiare eppure estraneo, lui con i suoi modi aristocratici e il suo bel vestire sembrava un nero lupo in un branco di schiamazzanti cuccioli. Con agile passo e denotando una notevole agilità si mosse scansando ubriachi e cameriere dal succinto vestito, tra la nebbia creata da sigari e pipe. Passò vicino ad un tavolo ove due ubriachi giocavano a braccio di ferro, rossi in viso per lo sforzo cercavano una fuggevole gloria incitati da commensali alticci quanto loro.

    "Crash"

    Un rumore di vetri infranti e una sequela di imprecazioni e bestemmie che spezzò l'atmosfera facendo calare il silenzio sugli avventori.
    Un uomo dall'aspetto nerboruto, con vestiti logori e in alcuni punti sporchi di birra urlava contro una cameriera nient'affatto preoccupata che anzi gli teneva testa come una virago nonostante il suo prorompente aspetto, questo almeno finchè un manrovescio non la fece cadere bocconi sulle grezze tavole di legno che formavano il pavimento.

    - tsk... -

    fu l'unico suono che uscì dalle rosse labbra dello "Chevalier" mentre si chiedeva come mai ogni volta dovesse intervenire...era più forte di lui, con un salto acrobatico si portò sopra un tavolo poco distante mandando a monte una partira di poker e rovesciando alcuni boccali di birra, poi con ulteriori altri due salti come un'acrobata di consumata esperienza si portò vicino all'energumeno, non erano passati che pochi attimi. Sguainò la spada, la rapier puntandone dalla sua posizione sopraelevata la punta sulla gola dell'uomo.

    - Chiedi scusa alla signorina, aiutala ad alzarsi e vattene stolto uomo dai moltri padri -

    Disse con voce di ghiaccio e occhi puntati in quelli dell'astante. La mano che reggeva la spada non tremava il braccio era saldo e l'uomo lo guardò con un espressione al contempo spaventata e stupita, stupita perchè non riusciva a capire da dove fosse spuntato quel damerino e che cosa volesse da lui, per di più era spaventato perchè dalla voce, dallo sguardo non sembrava il tipico damerino di città tutto lustri e poca sostanza, sembrava proprio il classico tipo che non gettava minacce al vento. Draka sorrise pensando che forse il suo insulto non aveva fatto breccia nello stolido cervello dell'uomo e così glielo ripetè in parole più triviali ma comprensibili mentre spingeva un pò di più la punta fino a graffiare la pelle dell'uomo facendone sgorgare alcuni rivoli di sangue.

    - aiutala ad alzarsi e vattene stupido figlio di puttana -

    Sul viso dell'energumeno fu facile vedere come si alternassero le emozioni concatenate ai suoi pensieri, da una parte non tollerava essere insultato, dall'altra l'avere una spada alla gola gli rendeva difficile qualsiasi mossa, inoltre il dolore e la paura gli rendevano ancora più difficile il compito di una scelta coerente. Alla fine il buon senso prevalse e aiutò la ragazza ad alzarsi poi cercando di preservare un minimò di dignità se ne andò sbraitando e spintonando quanti si trovavano lì vicino, sfogando la rabbia repressa sugli attoniti spettatori di quell'improvviso siparietto. Il "Maestro della Notte" senza sforzò leggiadro come una piuma scese dal tavolo rinfoderando la spada con un movimento quasi impercettibile, null'altro che un brilliò argenteo, poi porse alla ragazza un fazzoletto di seta nera e si andò a sedere sul posto lasciato vuoto accanto ad un ragazzo con molti fogli vicino.

    - della birra per favore -

    Ordinò con garbo prima di presentarsi con la consueta flemma

    - Draka, piacere di fare la sua conoscenza -

    e accennò ad un leggero cenno del capo mentre il brusio si trasformava pian piano nello stesso vociare di prima visto che la folla era ritornata alle consuete abitudini ed alle occupazioni poco prima interrotte.
     
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  3. Haeracharena
     
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    Scampoli di conversazione.
    Al tavolaccio del bancone, imputridito dai miasmi ed incattivito dagli sputi e dalle bestemmie, due individui
    pesantemente intabarrati parlocciavano con voce stanca, trascinando ogni parola
    come una nenia esausta.
    Beh, su con la vita! Il viaggio, in fondo, non è stato poi tanto male.
    Oh, si che lo è stato. Lo è stato si.
    Sei patologicamente incapace di divertirti, l'ho sempre detto. Ricordi, la carovana?
    All'avventuriera, niente strade..

    ...niente servizi igienici...
    ...niente vincoli...
    ...niente superstiti.
    Era proprio, proprio necessario?

    Ehi, ti avevano guardato strano.
    La tua cavalleria mi impressiona, Killer.
    Quasi quanto il tuo essere

    -garbato, edotto, attraente, charmant?
    Stronzo.
    Concluse
    Semplicemente stronzo.
    ~



    Li ascoltava da tanto, quella figura gobba assiepata nell'angolo più remoto dell'intero locale, da essersi quasi assuefatta al suono delle loro voci: l'uomo di nome Killer aveva un timbro raschiante, gutturale, simile alla sensazione di strazio prodotta dall'immagine delle unghie che si spezzano grattando disperatamente una superficie. Una sensazione che conosceva suo malgrado, e che ricordava con una sorta di patetico risentimento; il suo nemico naturale non si era mai sprecato nel dare prova di fermezza di spirito, quando veniva messo di fronte alla giustizia di Elysium. Il suo compagno, al contrario, esibiva dei toni femminini ma non squillanti, esponendosi -pur se impastoiato da quella che avrebbe detto frustrazione- con un pragmatismo tanto gelido da incutere soggezione. Alzò lo sguardo dalle mani intrecciate, ripercorrendo l'ordito fino ai gomiti ed alla spalla, gettandosi poi in un libero scandaglio del circondario. La tonaca bianca con scapolare era di almeno due lunghezze superiore alla sua taglia, e le estremità pendevano flosce attorno ai piedi della sedia creando una pozza di pieghe color vaniglia che si increspava ad ogni suo sussulto. Colse con la coda dell'occhio le avvisaglie di una scaramuccia, e ne seguì sottecchi l'evoluzione con la curiosità morbosa di chi non ha niente a cui pensare per sé -o meglio, non vorrebbe.
    Un nativo del piano stava discutendo animatamente con un tozzo omaccione in malo arnese, che rispondeva insultandolo e biascicando in una inflessione dialettale del comune corrente a lei completamente aliena. Si concentrò, cercando di intuire il senso delle parole: da che aveva cominciato la sua bonifica sul foglio di Endlos, nessuno si era mai prodigato nel fornirle una lezione di lingue che andasse oltre il verso gutturale e soffocato che precede l'ultimo spasmo del corpo prima della fine e l'espressione "mostro". Non era infrequente, quindi, che decidesse di mescolarsi alla quotidianità dei loro primitivi tessuti sociali per assorbirne tanto i costumi quanto gli idiomi. Quando il ragazzo schioccò pollice e medio precedendo il prodursi di una piccola scintilla, però, si assicurò mentalmente che quello 'studio sul campo' stava per rivelarsi più produttivo di quanto sperasse. Fece per alzarsi, ma venne prevenuta da un ubriacone cencioso che le intimò, schioccando la lingua più volte contro il palato,
    di offrirgli qualcosa da bere.
    Si alzò. Rispetto ai suoi due metri buoni di altezza, lo sconosciuto molestatore abbozzò una frase di circostanza ed indietreggiò di alcuni passi, inciampando -piuttosto comicamente- nella gamba tesa di un altro avventore. Quello le strizzò l'occhio in segno d'intesa, al quale rispose con un cenno sbrigativo del capo. Doveva muoversi.
    Veleggiò verso il protagonista della diatriba nel più completo silenzio, portandosi dietro di lui con gesto esperto. Una mano ne afferrò la spalla simulando una confidenza inesistente, mentre l'altra si poggiò sul bordo del desco quasi a volerne prevenire la fuga. Parlò.
    Prodigio interessante, signor...
    esordì con voce aspra, come se rimasta inutilizzata per diverso tempo ed ora rimessa forzatamente in esercizio.
    Tossì più volte, aiutandosi a guadagnare chiarezza espositiva.
    Stregoneria?
    E serrò impercettibilmente la presa, sottolineando che quella non era
    una domanda disinteressata.

     
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    Cado spesso un poco dalle nuvole.

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    Il corpo di Ossido si mosse d’istinto: fu uno scatto appena percepibile, come di paura, quando avvertì il tocco della mano sulla sua spalla. Non si trattò però di una reazione data dall’essere stato colto di sorpresa: era piuttosto una repulsione verso il contatto fisico da parte di estranei; da sempre soltanto gli amici più cari – attualmente nessuno – potevano permettersi di sfiorarlo senza preavviso. Per miracolo non sporcò il foglio con un tratto di inchiostro in eccesso: il caso volle che un attimo prima avesse sollevato il pennino dalla carta.
    Un sopracciglio si inarcò e con lui si alzarono ancora un poco le palpebre, delineando un’espressione di disappunto sul volto – fino ad allora mantenuto ben disteso, per dare ai barbari del posto quell’idea di imperturbabilità che sembrava riuscisse a tenerli in religioso silenzio (per la maggior parte del tempo). Sospirò, uscendo da un’apnea di fastidio ed odio non ancora canalizzato: girò la testa senza fretta, accompagnando gli occhi che già si alzavano per acquisire un bersaglio. Non badò neppure ai dettagli, gli bastò di constatare che si trattava di una specie di essere umano.
    « Dì un po’, avvoltoio, ti sei piazzato su di me perché puzzo già di morto? »
    Le parole se ne sfuggirono via dalla bocca con velocità, fu una cascata di sufficienza: le labbra erano piegate verso il basso, dato che per lui quell’individuo puzzava tanto quanto era invadente. Solo allora si degnò di analizzare quello che gli era stato detto, trovandolo inevitabilmente ancora più fastidioso: essere scambiato per un prestigiatore non era davvero il sogno della sua vita, né rappresentava una giusta ricompensa a tutti i suoi sforzi – tanti, peraltro.
    « Stregoneria? Questo è usare con ingegno madre natura! Trovo sia stupido andare a cercare nell’innaturale i mezzi che puoi benissimo procurarti lavorando un po’ con i materiali giusti. »
    Sorridendo scrollò le spalle per togliere la mano che lo opprimeva, per poi continuare a giocare con la consueta irriverenza insistendo nel proprio discorso in difesa della ragione.
    « Certo, a meno che tu non sia un contadino. » poco dietro il gruppo di bifolchi borbottò qualcosa, ma si guardò bene dal farsi avanti un’altra volta « Ma tu non sei un contadino, vero avvoltoio? Non ho mai sentito parlare di avvoltoi contadini: da che ne so io voialtri siete dei gran rompiscatole, ma cercate solo cibo. »
    Non ebbe neppure un momento per rilassarsi dato che, finito lo sfogo nei confronti del primo molestatore, nacque un interesse nei confronti di un altro tizio (anch’esso ai suoi occhi del tutto insignificante, quindi per il momento privo di faccia e corpo ben definiti) che si era seduto al suo fianco. L’educazione dimostrata da questo secondo individuo lo fece diventare da subito molto meno sgradito ad Ossido che, ascoltatone di sfuggita il nome, rispose bruscamente:
    « Piacere?! Ma che diavolo vi ho fatto oggi? Mi sembra di essere una prostituta in tempo di guerra! Sono un uomo impegnato » marcò, scandendo bene le sillabe, la parola “uomo” « e nella fattispecie impegnato nel proprio lavoro. Quindi… o siete qui per parlare di lavoro oppure sappiate che non ho intenzione di fare da balia a nessuno di voi omaccioni. »
    Sbuffò di nuovo e poi, quasi si fosse reso conto di un qualche errore, aggiunse una postilla di gentilezza al suo discorso.
    « Ora che ci penso, magari volete solo sapere il mio nome e poi tornerete alle vostre – immagino – mirabolanti esistenze: mi chiamano Ossido. »

     
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  5. Le Chevalier
     
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    «Forse sono il re degli imbecilli, l'ultimo rappresentante di una dinastia
    completamente estinta che credeva nella generosità e nell'eroismo
    »

    CITAZIONE
    « Piacere?! Ma che diavolo vi ho fatto oggi? Mi sembra di essere una prostituta in tempo di guerra! Sono un uomo impegnato »

    « e nella fattispecie impegnato nel proprio lavoro. Quindi… o siete qui per parlare di lavoro oppure sappiate che non ho intenzione di fare da balia a nessuno di voi omaccioni. »

    « Ora che ci penso, magari volete solo sapere il mio nome e poi tornerete alle vostre – immagino – mirabolanti esistenze: mi chiamano Ossido. »

    La faccia di Draka non cambiò espressione, solo gli occhi mostrarono una certa fissità puntata sullo scortese avventore di quella bettola che già cominciava a sembrargli troppo affollata, rifletteva Il Maestro della Notte. Con la consueta velocità elaborava possibili risposte andando a ripescare nel suo lunghissimo passato fino a quando un guizzo, subito celato, accese gli occhi e fece intendere come avesse trovato la soluzione giusta, quella più consona a suo parere alla situazione. Senza più parlare colse al volo un boccale sbrecciato e coperto di brina a causa della birra gelata prelevandolo da un vassoio che passava lì per caso. Si alzò quasi volesse cambiare posto, mettendo in mostra la sua ragguardevole altezza, con movimenti posati ed eleganti tipici della sua persona. Le suole degli stivali ritmarono i suoi passi, mentre lui con molta calma si portava dall'altro lato del tavolo, proprio di fronte ad Ossido. Posò la mano sinistra aperta sul tavolo, i guanti neri dal ricco ordito in contrasto con lo scuro del legno macchiato e scheggiato. Si piegò in avanti con noncuranza piantando i propri occhi in quelli dell'altro e senza mostrare nient'altro che una calma espressione con appena un cenno di riso all'angolo destro delle labbra rovesciò tutto il boccale di spumosa birra sui fogli di lavoro che con tanta insistenza il ragazzo stava controllando e scribbacchiando così avrebbe imparato un pò di buona creanza. Non c'era bisogno di essere così aggressivo, ma era un dono di natura il suo.

    - Ecco. Possiamo Ricominciare Ora. Salve. -

    Il tono di voce non aveva inflessioni cattive ne arrabbiate, nemmeno un tono canzonatorio appena, appena accennato, nulla. Era amorfo e tranquillo. Draka si comportava come se niente fosse successo e nel frattempo aspettava; pronto a qualsiasi reazione, i muscoli sciolti ma pronti a tendersi e a reagire. Con la coda dell'occhio guardava anche la figura allampanata che poco prima si era presentata, perchè la sua esperienza gli aveva insegnato a non lasciare nulla al caso. La situazione stava forse per imboccare una strada di non ritorno che l'avrebbe portato a danzare con la spada in pugno, non se ne curava. Nel frattempo la vita nella bettola continuava imperterrita, giungendo alla mente concentrata dello Chevalier come ovattata, semplice contorno al siparietto messo in atto da quegli insoliti protagonisti che quasi nulla avevano in comune.
     
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  6. Haeracharena
     
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    Dì un po’, avvoltoio, ti sei piazzato su di me perché puzzo già di morto?
    Ritrasse la mano con esasperante delicatezza - come se avesse appena accondisceso ad una richiesta supplice - e rimase ritta in piedi a fissare il volto paonazzo dell'omuncolo che sbraitava; i tratti del viso, censurati dal cappuccio dell'abito che proiettava ombre impossibili e dense sui lineamenti di lei, si deformarono in un'espressione crudele che sembrava ringhiare "non ancora".
    Naturalmente, Ossido non poteva saperlo.
    Stregoneria? Questo è usare con ingegno madre natura! Trovo sia stupido andare a cercare nell’innaturale i mezzi che
    puoi benissimo procurarti lavorando un po’ con i materiali giusti.



    Prese posto sullo sgabello di fianco a lui, e si chinò curva sui gomiti ad ascoltare la predica con vivo interesse; i suoi occhi, invisibili oltre la coltre di stoffa, luccicavano di morboso compiacimento. Lo incentivò con un cenno del capo, e quello -che probabilmente non ne aveva decifrato le avvisaglie- continuò imperterrito senza richiedere alcun incoraggiamento.
    Certo, a meno che tu non sia un contadino.” incalzò “Ma tu non sei un contadino, vero avvoltoio? Non ho mai sentito parlare di avvoltoi contadini: da che ne so io voialtri siete dei gran rompiscatole, ma cercate solo cibo.
    Si fregò le mani, digrignando i denti: che uno stregone la etichettasse come parassita aveva una sua comicità grottesca, ma era anche offensivo sino al ridicolo; fortuna volle che le riuscì di sottomettere l'orgoglio al suo utile con un gesto di deprecazione, col quale sperava che l'altro cogliesse il -cortese- invito ad accantonare l'argomento. Poi, un'illuminazione.
    Da che ne avesse memoria, gli uomini coltivavano una radicata e tenace diffidenza nei confronti di ciò che non conoscevano: forse, per far sì che l'omiciattolo la considerasse suo pari e si aprisse a confidenze più interessanti, avrebbe dovuto scoprirsi il viso. Portò le mani ad afferrare le falde e calò il cappuccio dal capo in maniera squisitamente casuale, raffazzonando il tutto come un gesto consuetudinario. Aveva un bel viso aguzzo e labbra sottili e occhi sorprendentemente vivaci, il cui verde brillante produceva un terribile contrasto con la pelle bianchissima ed enfiata. I capelli si srotolarono fino al bacino, ricadendo sulle spalle e sulle scapole in una cascata caotica ma elegante. Aveva capelli verdi.
    Quindi...” suggerì, allungando la mano verso i fogli sparsi a casaccio sul bancone “questi disegni avrebbero a che fare con il tuo "ingegno", immagino.
    Sorrise, socchiudendo le palpebre sino a ridurle a due fessure irraggianti colore.
    Interessante. Mi piacerebbe averne una dimostrazione.
    Il suo era tono quasi flautato, edulcorato nella minaccia più dolce.
    Il loro acerbo scambio di cortesie venne interrotto da un terzo, incognito incomodo, che rovesciò un'intera caraffa di liquido ambrato sui fogli cui aveva appena accennato. La pinta inzuppò la carta sino a disfarne le fibre in una pappa molliccia, dalla quale l'inchiostro colò via in rigagnoli color seppia. Quella già incomprensibile orgia di vettori e parametri era diventata un amorfo fluire di umori appiccicaticci e odorosi di alcool e china.
    Il suo sorriso si accentuò, impossibilitato a nascondere un predicato maligno:
    la dimostrazione stava per esserle appena servita.

     
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  7. Olaf_the_Tinman
     
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    Ormai da tre anni a questa parte Palla di Cannone e Ossido si trovavano durante un ingaggio a ristorarsi in queste bettole di locande, non che all’Ospite interessasse, si trattava sempre e comunque di motivi stipendiati.



    L’armatura percorse, con una postura china in avanti, tutto il corridoio che dal bagno portava alla sala principale dando occhiate invisibili a chi incontrava per il suo cammino.
    Dovette appiccicarsi alla parete un paio di volte per poter lasciar passare contadini ubriachi che a tastoni arrivavano a vomitare comunque negli angoli, lasciando così l‘inarrivabile meta della latrina intonsa di schifezze digerite e alcool.
    E’ stato proprio in mezzo a quel corridoio che un uomo vestito di stracci e terra si calò i pantaloni davanti all’ Ospite e con barcollante fare disinvolto cominciò a urinare borbottando qualcosa sull’ubicazione del wc e mettendo a paragone le toilette moderne con quelle di una volta; Palla di Cannone non si sarebbe mai aspettato una cosa simile ma, per fortuna, riuscì abilmente a scansare il fiotto di urina dell’ubriaco e, caricato il pugno dietro di se, si ricordò del suo nasuto compare che gli gracchiava sempre la solita solfa :


    “La devi smettere di provare il mio gioiello su persone la quale morte non ci viene pagata, hai capito bene?! Io ti ho costruito, ma ti smonto anche!”


    Fu proprio quella rimembranza che fermo il colpo, trasformandolo semplicemente in una carezza sulla testa.

    A 50'000 volt.


    In un attimo la scarica elettrica percorse il cervello del contadino facendogli, con un poderoso “ZOT” perdere i sensi, ovviamente la gente che lo avrebbe visto avrebbe pensato agli effetti dell’alcool e non di una scarica elettrica. Ridacchiando tra se e se l’Ospite si diresse verso il tavolo dove poco fa era seduto con il suo compare Ossido.


    La vista di quei tizi che tocchettavano Ossido riempiendolo di domande gli puzzò subito di sbirro, L’ospite prese un respiro, la pompa meccanica fece il suo solito rumore metallico, aspettò qualche secondo per vedere se Ossido gli avesse suggerito qualche ordine, ma, pareva che fosse troppo inalberato per considerare l’armatura. Così spinse un piede davanti all’altro fino al tavolo dove scostò una sedia di fronte a Ossido, l’Ospite si sedette e sperò di non dover attuare il piano: “ci sono gli sbirri”.
    “Ma quanta gente Ossido! Oggi fai veramente colpo eh!?Chi sono i tuoi amichetti?”

    disse in tono squillante squadrando dall’alto al basso i due individui, un lontano ronzio si innescò appena finita la frase, l’armatura si preparava ad agire.

     
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    Probabilmente fu solo l’arrivo di una voce amica a far allontanare la mano di Ossido dal suo fucile: dopotutto perché sbrigare personalmente il lavoro sporco, quando si ha un compagno creato appositamente per abbattere le minacce? Il fatto che poi la quasi totalità dei pericoli che si trovavano ad affrontare era causata da un battibecco era un dettaglio che non considerava mai.
    Con uno sforzo notevole riportò gli avambracci bene in vista, poggiandoli sul tavolo: le dita delle mani si incrociarono, con gli occhi che le tenevano bene d’occhio – un modo come un altro per non guardare in faccia l’infame che aveva osato bagnare gli appunti. Dopo un lungo respiro passò la lingua tra i denti perché perdessero la voglia di mordere: sapeva che, a seconda di come avrebbe risposto all’amico, il locale sarebbe andato in pezzi; lui non voleva questo, al superbo tecnocrate piaceva sul serio, ed adorava la pace che solitamente c’era e che soltanto oggi sembrava essere venuta a mancare. Bevve d’un fiato il bicchierino di whiskey che gli stava di fianco in onore proprio di quella quiete morta e sepolta.

    « Oh, niente, tranquillo. Stavamo… » esitò un attimo, passando un dito sulla birra che aveva compromesso il suo lavoro giornaliero « …solo parlando. »
    Riportò finalmente lo sguardo prima all’infame, a cui mostrò un sorriso da traditore, accompagnato da un movimento ripetuto delle sopracciglia – che risultò di una falsità disgustosa.
    « Bene, ricominciamo: che diavolo vuoi tu dalla mia vita? A meno che questo tuo gesto non fosse lo strano modo che si usa tra le scimmie per dire “sì, sono interessato alla vostra sacrosanta proposta di lavoro, cosicché io possa vivere a pieno questa mia profonda e meravigliosa esistenza anche in questo giorno che, altrimenti, avrei considerato totalmente inutile e devoto soltanto al perdere tempo ed al vagabondare romantico che mi distingue”, io credo che tu debba andare a fotterti con le tue gambe, se ci riesci. »
    La parlantina svelta, la maschera facciale ben tirata perché non si perdesse neanche una sillaba del discorso che, dopo la geniale idea che quell’avventuriero aveva avuto, era davvero la cosa più gentile che la mente di Ossido poteva partorire.
    « Quanto a voi » disse poi, rivolgendosi alla signorina al suo fianco « se siete interessata ad accompagnarci nel nostro lavoro avrete una dimostrazione anche quest’oggi. Siamo tipi a cui piace l’avventura ed abbiamo bisogno di gente che non si faccia troppe domande e sia in grado di badare a sé stessa; requisiti che di per sé escludono sempre i tutori di una qualsivoglia legge. »

     
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  9. Haeracharena
     
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    Registrò i passi di un terzo che approcciava il trio appena in tempo per incrociarne lo sguardo -se ne avesse potuto elargire uno: l'individuo (un altro sconosciuto molestatore?) aveva il viso completamente coperto dalla celata di un elmo, ed il corpo cinto da un'armatura completa. Concentrandosi sulla sua presenza, riuscì a percepire il guizzo di scariche statiche che si rincorrevano dagli schinieri fino alla piastra del pettorale. Il nuovo arrivato occupò il suo interesse per un breve momento, trascorso il quale tornò ad occuparsi dell'autoproclamatosi "uomo d'ingegno". Ossido, si chiamava. Un nome.
    Se lo sarebbe fatto bastare.
    se siete interessata ad accompagnarci nel nostro lavoro avrete una dimostrazione anche quest’oggi. Siamo tipi a cui piace l’avventura ed abbiamo bisogno di gente che non si faccia troppe domande e sia in grado di badare a sé stessa; requisiti che di per sé escludono sempre i tutori di una qualsivoglia legge.
    Sorbì la requisitoria con cortese interesse, annuendo placidamente al suo avvenuto compimento. Intrecciò le dita all'altezza degli occhi, nascondendo le labbra arricciate in un sorriso grottesco.
    Interessata? Certamente. Temo tuttavia di non averne la possibilità.
    E sciolse la posa per portare la destra al lobo corrispondente, disciplinando una ciocca di capelli fuori posto; un riflesso condizionato di vanità inespressa.
    Ho la mia...come ha detto? "Avventura" personale di cui occuparmi.
    Scese dallo sgabello, esibendosi -ancora- nella sua considerevole altezza. Calò il cappuccio sul viso,
    censurando un brillìo compromettente acceso fra la cornea e l'iride.
    E non ha idea di quanto, quanto sappia dare valore ad un
    uomo di poche domande.

    Attraversò il locale, oltrepassando la corazza con ostentata noncuranza; ad una manciata di metri, espanse
    i suoi sensi quanto bastava per decifrarla fin sotto la superficie. Si voltò.


    Mica male, il suo ingegno.
    Raggiunse la porta ed afferrò lo stipite; nel compiere il gesto, la manica calò sull'avambraccio quanto
    bastava per lasciar scorgere un intrico di vene grigiastre e luminescenti,
    attraversate da canali di magia selvaggia.
    Vorrà dire che, quando ne avrò bisogno...
    Esitò, meditabonda. Il sorriso che le si dilatò sulle guance era di quanto più
    disgustosamente falso si potesse esprimere con un paio di labbra.
    ...chiederò di 'Ossido'. Buona giornata.

     
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