Descrizione

Najaza

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    Viaggiatore dei Mondi

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    Najaza
    { Paese delle Stelle Cadenti }

    Alcuni la chiamano “Incognita”, la città-che-non-deve-esistere o lacrima edenica, mentre altri preferiscono
    il suo nome originale, scritto - si mormora - nella lingua degli antichi dèi.
    Molti non la chiamano affatto.

    Najaza è, in effetti, qualcosa la cui sola esistenza continua a rimanere imponderabile: un monumentale blocco di terra tendente dabbasso alla convessità di una piramide capovolta – piramide sulle cui pareti di humus, roccia e muschio s’incontrano intrichi di radici più vecchie del tempo, ormai cristallizzate dal freddo in gelidi simulacri serpentiformi. Levita ad un’altezza babelica stimata non inferiore ai quattromila piedi, proprio come la sua seconda etichetta vuole immaginarla: non diversa da una lacrima celeste incatenata da un’invisibile prigione di stasi. Sul dorso, aguzzando lo sguardo, si può intravedere il rosso del tegolato che domina il borgo, la cui geometria si riflette su buona parte dell’abitato civile. Il presidio urbano si apre a ventaglio, costeggiando le estremità dello sperone su cui poggia in un’apprezzabile simmetria, facendo sì che ogni edificio si affacci su grandi piazze naturali. Al centro degli acciottolati si erge un palchetto in marmo in cui i residenti ammucchiano pile ordinate di paglia e sarmenti, che ogni sera - in obbedienza al costume locale - si trasformano in immense pire dai colori vivaci, irraggianti calore fin nella più lontana casupola o cantina. Ma non è il borgo né il festival del fuoco a fare di Najaza una capitale entrata nella leggenda di Endlos, ma il terrificante delirio architettonico che si proietta verso l’indefinito appena sopra i confini dell’insediamento: Banebriar’s Place, la dimora dell’Alfiere del Nord.


    Banebriar’s Place
    { Palazzo delle Stelle Estinte }

    Il palazzo dell’Alfiere del Nord è una mostruosità contorta di livida pietra scura articolata in cinque torri simili a cinque falangi, le cui unghie si conficcano prepotentemente nel grembo stesso del cielo, strappando ad ogni movimento dell’isola frustoli di carne nubiforme. Il castello si apre in un imponente fortilizio minore costeggiato su ambo i lati dai baraccamenti delle guardie cittadine, preludiato da una mastodontica cancellata tutta istoriata di bassorilievi. La cinta muraria che comprende l’edificio principale al suo interno è impreziosita da due ranghi paralleli di ricchissime modanature, collocate poco al di sotto dei merli che guardano al perimetro dei camminamenti. Due coppie di torri si lanciano verso l’alto dai due estremi della fortificazione, picchettate saltuariamente da eleganti finestrelle a bifora e collegate fra loro da sparuti ranghi di ponti sospesi, orlati da complessi arabeschi di ferro nero atteggiati a ringhiere. Il mastio si erge al centro esatto della struttura e consta di una torre a pianta irregolare famosa tanto per le sue dimensioni quanto per l’ombra che disegna sul paese, una lama scura che scandisce il tempo ed assorbe la luce, quasi fosse la grottesca imitazione di una meridiana la cui cima non è mai visibile.

    All’interno del palazzo la sala dei ricevimenti dà un senso di vuoto angoscioso. I pochi mobili disposti a ridosso delle pareti - perlopiù scaffali in disuso, cassepanche e vecchie, lise armature - si chiudono su di un desolato spazio quadrangolare cui solo il presidio di un lungo tappeto borgogna trasmette un’illusione di iato: dall’altro capo di questo vi è solo una scrivania di noce posta davanti ad un camino. Superate le poche aree pubbliche del palazzo, il resto della sua mole sfrontata contiene un intrico tridimensionale di piattaforme e corridoi scoperchiati, ciascuno sospeso in un abisso dai colori cangianti in cui non abitano che polvere e fantasmi di luce. L’architettura labirintica del cosiddetto “corridoio infinito” è un disegno ineffabile, soverchiante e proprio per questo odioso in ogni sua manifestazione.

    Oltre il congresso di nembi grigi, oltre il buonsenso e la blasfemia, prende invece corpo la sommità della torre. I merli e le scanalature sono progettati per armonizzarsi nel profilo di una corona di luce bianca e aranciata, che cattura costantemente il chiarore del giorno per commutarlo in scintillanti riverberi luminescenti. Appena più sotto, una grande finestra - sagomata in omaggio al nome della torre stessa - si apre su di uno spazio vibrante, pieno di musica, dalle cui pareti effonde a regolari intervalli un suono simile al battito di un ventricolo. Quello è il suono della Campana-Cuore, la residenza dell’Alfiere, e dietro quel vetro è ammessa una sola presenza.



    Edited by Endlos - 11/10/2017, 20:53
     
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