La fata e l'ermellino

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  1. Gwin~
     
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    Camminava silenzioso dietro di lei, gli occhi che vagavano per il mercato.
    Lei non gli badava. Faceva sempre così, durante il giorno.
    Lo trattava come un servo di infima categoria, una guardia del corpo troppo esile. Ma loro sapevano bene che si trattava soltanto di una montatura. Ogni loro passo era sincronizzato, ogni sguardo, ogni respiro avevano un preciso scopo.
    Lui era il suo animale domestico, la sua ombra, il suo amante.
    Lui era lo strumento che nella notte uccideva i nemici di lei, un pugnale alla gola, una spada nel cuore. Lui li carezzava con la lingua, assaggiava il sapore del loro sangue e della loro paura.
    E poi contorceva le labbra in quella smorfia che gli umani chiamavano ridere.
    Non era ancora riuscito a comprenderli appieno, con quella loro fame incontenibile. Fame di ricchezze, di cibo, di piacere, di pelle contro pelle, di vita o di morte. Pulsavano come galassie impazzite, pronte a fagocitare l'oggetto del proprio desiderio.
    Non avevano il profumo della natura, della rugiada e della caccia. Erano rancidi, disgustosi.
    Eppure lei era la sua padrona, lei lo dominava con i propri sussurri deliziosi, lo trascinava a sé senza che si potesse contenere.
    Con lei era umano.

    E quindi la seguiva come un'ombra, il volto impassibile.
    Non aveva nemmeno notato che lei quel giorno era diversa. Non aveva notato la nuova collana che portava al collo.
    A volte un animale, un servo infallibile, può diventare un peso fastidioso, addirittura una minaccia. A volte dipendere da lui può diventare pericoloso.
    Ma lui non conosceva gli umani, il loro modo di ragionare.
    Non poteva capire.
    E così il colpo lo colse impreparato, dietro la nuca. Fragile come un cristallo si afflosciò a terra, coperto dal mantello candido. E l'ultima cosa che vide fu il suo sorriso. Lei parlò, lui rabbrividì, ma non comprese le sue parole. Il secondo colpo giunse prima.

    Il mercante agitava le braccia, invitando i possibili acquirenti intorno alla gabbia d'oro.
    Il giovane soffiava dalle labbra come un animale, una catena d'oro attorno al collo, i capelli arruffati attorno al viso sudato.
    Era ferito alla fronte e il sangue gli si era asciugato lungo le guance.
    Quando erano troppo vicini si trasformava nell'ermellino ingrigito dal fango, dalla polvere e dalle ferite, ma i colpi di frusta lo costringevano alla propria forma umana.
    Prometteva la morte con occhi fiammeggianti, la prometteva a tutti loro, indistintamente, come folle.
    Non sarebbe morto, mai. Lui era il predatore.
    Lui.



    CITAZIONE
    Scena concordata con Amelie ^w^

     
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    Gli strepiti dei commercianti in cerca di clienti rivendicavano le loro attenzioni ad ogni passo che i due giovani osavano compiere per addentrarsi nei rioni ingombri di bancarelle, e nulla tra gli schiamazzi dei bambini, i versi degli animali, le arringhe dei venditori e le contrattazioni dei clienti avrebbe lasciato presagire che ad Epartis quella sarebbe stata una giornata diversa dalle altre.

    Il quartiere delle botteghe della Capitale dell’Est era una delle piccole meraviglie del presidio orientale: con i suoi colori, i suoi profumi e il fitto chiacchiericcio che ne permeava l’aria, quello era sempre stato un angolo molto pittoresco di Istvàn, e tale era il motivo per cui il biondo Paladino aveva creduto di fare una cosa gradita accompagnando la sua amata a visitare quella parte di città, frizzante e animata come un cuore tumultuoso di vita.

    Eppure, ciò che vide non gli piacque affatto.

    Al centro di un piccolo capannello, che andava rapidamente espandendo dietro le insistenti promozioni del mercante di turno, stava una gabbia d’oro... e dentro la gabbia, un giovane ragazzo dai capelli albini.

    Aveva al collo una catena dello stesso metallo della sua prigione, e se già questo non fosse stato sufficiente, ad aggravare la situazione c’era il non trascurabile fatto che il ragazzo fosse sporco di sangue -forse ferito-; la cosa più incredibile -quella su cui probabilmente il commerciante straniero puntava per strappare l’affare più vantaggioso- restava tuttavia la capacità muta-forma di quella creatura: sicuramente atterrito dal moltiplicarsi di sconosciuti intorno a lui, il recluso seguitava a passare dalla forma umana a quella di ermellino, ma il modo in cui la frusta calava su di lui era senz’altro lo spettacolo più agghiacciante di tutti.

    Il Cavaliere non ebbe nemmeno bisogno che la sua dolce donzella schiudesse le labbra; gli bastò incontrare lo smeraldo incupito dalla pena per quel povero animale che riluceva nei suoi teneri grandi occhi per farsi strada tra la folla e strappare lo scudiscio di mano all’uomo; sbaragliò le sue proteste con un solo imperioso sguardo dei limpidi occhi cerulei, e se all’altro le parole morirono sulle labbra, quelle del Capitano delle Guardie risuonarono forti e fiere.


    « Nel nome della Dama Azzurra vi ordino di fermare questo scempio. »
    intimò la voce profonda e ferma di Leon, con un tono che non ammetteva repliche
    « Questa è tortura, un crimine punibile in tutto il presidio
    con un lungo soggiorno nelle nostre galere. »

     
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    La mattina era straordinariamente viva sotto un cielo di pura perla.
    Avevano abbandonato i loro alloggi di buon’ora, perché Amelie desiderava visitare il Mercato; trovava entusiasmante immergersi nel valzer di colori e suoni che Epartis era capace di generare, lasciandosi trasportare dai profumi come dalla marea… si sentiva come una bambina in un negozio di balocchi.
    Ma, all’improvviso, qualcosa in quel mondo variopinto risaltò come una macchia di sporco, qualcosa di inquietante, freddo e appiccicoso. Quando i suoi occhi si posarono sulla prigione dorata di un ragazzo dai capelli di neve sentì il dolore gelido e pungente dell’orrore, accompagnato da un brivido freddo che risalì lungo la schiena bianca e delicata.
    La Rosa si accostò alla gabbia, avvolgendo le dita lunghe e bianche come la spuma del mare alle spranghe auree, col mondo al di là che svaniva ai sensi; avvertì Leon dire qualcosa al mercante che le giunse ovattata e lontana, senza che riuscisse a lasciar traccia nella sua mente catalizzata sul ragazzo.
    Lei ormai aveva agganciato lo sguardo al suo, due gocce d’inchiostro in un mare bianco, intrappolandolo nel verde rigoglioso delle sue iridi, come un insetto nel miele. Anche in tutto quel nero, poteva cogliere il guizzante desiderio di fare a pezzi tutto, incenerire ogni cosa.
    Per essere così esile e bianco, quella creatura covava sogni di distruzione inarrestabile.
    E per un attimo fu davvero come vederla; una cortina ondulata di sangue, un vento rosso che spazza le strade salendo verso l’alto col suo odore rugginoso, lo squarcio e le urla.

    Rabbrividì.

    Eppure erano due creature affini: entrambi spiriti silvani, seppure in modo diverso – lei poteva percepirlo, e forse anche lui.
    Ma la voglia di rivalsa non era mai stata il suo forte.
    Aveva preferito incanalare le sue energie in altro modo che quello della vendetta, e forse fu questa strana empatia coagulata in un passato antico che le strinse il cuore in una morsa più fitta, dolceamara di nostalgia.

    Ti salverò, dicevano i suoi grandi, teneri occhi verdi.

    E in quegli stessi occhi – nel tempo di un battito di cuore –, la luce cambiò.
    Aggrappata alle sbarre d’oro come a un’ultima speranza, la Fata lasciò che il destino facesse il suo corso nel momento in cui il suo potere fluì nel terreno al di sotto; le bastò chiudere gli occhi per percepire i viticci spaccare il suolo con l’irruenza vitale della loro magia, attorcigliandosi rapidamente alle sbarre e deformandole, sino ad aprirle completamente.

    Le ciglia di carbone fremettero prima di schiudersi, donandole la sensazione d’essere in bilico sul confine del mondo.
    Poi, Amelie guardò l'uomo-ermellino con un'occhiata gravida d'aspettative e si fece da parte, consegnandogli – con una solennità che pareva quasi fuori luogo in un corpicino sottile come il suo – il passo e, insieme ad esso, la libertà.
    Cosa fare, spettava solo a lui deciderlo.



    Passive da tenere im considerazione:
    Candore del Giglio
    L’aspetto puro e innocente della giovane incarna l’angelico candore delle Fate tanto decantato dai bardi di ogni tempo e tramandato di bocca in bocca in tutte le leggende popolari; non è difatti un caso che le Fate siano descritte come creature di una bellezza radiosa, ma il fascino di Amelie spinge persino ad abbandonare ogni riserva, avversione o diffidenza nei suoi riguardi -donando in cambio un forte senso di tranquillità e conforto-, e la sua sensibilità suscita un tenero istinto di protezione in chi la contempla, facendole spesso guadagnare aiuto e tutela.
    É talmente delicata e dolce -un fiore così puro e inviolato- che offrirle sostegno e riparo sarà un gesto spontaneo e disinteressato, perché la sua tristezza risulta insostenibile anche per il più inaridito dei cuori, e il suo sorriso splendente e bello come la più luminosa delle stelle.
    L’attrazione che promana spezza paura e timori, ispirando il desiderio di aprirsi e confidarsi per la grande pace e serenità sperimentate in sua presenza -sensazioni calde e lenitive come un balsamo guaritore-, purificando e alleggerendo l’aria da ogni negatività e pensiero maligno.
    Tale ascendente inconscio è utile per dirimere questioni spinose, superando qualsiasi differenza -oggettiva o soggettiva che sia- e diffidenza tra le creature; è da considerarsi attivo su chiunque la guardi, sebbene l’intensità della sua bellezza -che lascia spesso piacevolmente storditi, come ebbri- possa provocare reazioni inconsulte in soggetti deboli, animi particolarmente traumatizzati, o semplicemente deviati.

    Tecniche utilizzate:
    Convenzione della Rosa e delle Spine: trattare con la massima discrezione. I suoi petali, sovrapposti in modo concentrico, si raccolgono in un bocciolo centrale che in molte varietà non si schiude mai del tutto: un piccolo e delicato scrigno che non deve essere forzato per nessuna ragione. Non a caso, la rosa ancora chiusa incarna la castità femminile, mente quella aperta simboleggia le bellezza effimera della gioventù.
    Questo, probabilmente, è l’incanto maggiormente offensivo tra quelli a disposizione del ragazzo: all’immediato ordine di Armand, dal terreno sotto e intorno a lui emergono fitti tralicci di rovi spinosi, duri come l’acciaio, sinuosi come serpenti, e adorni di bellissime rose di ogni varietà e colore. I fasci spinati possono muoversi secondo il volere dell’incantatore, ubbidendo prontamente al suo pensiero e muovendosi in tutte le direzioni entro il loro raggio di azione (5 metri a basso, 7 medio, 10 alto, 15 critico).
    Una volta evocati le schiere di rovi, al prezzo d’un supplementare consumo d’energie e di uno slot tecnica, le affilate spine possono staccarsi dai rovi e venire scagliate contro il nemico in una fitta pioggia di dardi vegetali.
    Colpire Armand, o anche solo avvicinarsi a lui, diventa assai difficile durante l’impiego della magia, sebbene per il ragazzo sia impossibile utilizzare le altre tecniche, poiché i viticci lo proteggono fedelmente mentre perseguono nel tentativo di avvilupparsi attorno all’avversario, di sferzare i loro cirri resistenti e di colpire con le loro spine l’intruso ostile. Inutile dire come queste fruste arboree siano in grado di sminuzzare facilmente le sostanze più robuste.
    Consumo: Basso

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    Un attimo prima la gabbia d’oro era il suo mondo chiuso, da cui non poteva fuggire.
    Gli sguardi degli umani attorno a lui erano curiosi, bramosi, le loro mani si tendevano nel tentativo di sfiorarlo, di rubargli un lembo della propria solitudine.
    Un attimo prima provava solo odio e lo gridava verso di loro con sguardi terribili.
    E in un secondo aveva incontrato gli occhi di lei. Era un’altra delle loro femmine. Eppure qualcosa in lei era profondamente diverso. Non pareva animata dalla loro sete infinita, non pareva desiderarlo per sé. Non voleva pagare il corpo di lui con la propria moneta fredda.
    Sembrava seriamente preoccupata per lui, gli donava la libertà con le parole e con i fatti.
    La natura si piegava al volere di lei per spezzare l’opera degli umani.
    Guardò attonito le sbarre piegarsi, il pelo ritto sul corpo sottile. Sentì il profumo della foresta, della propria patria, e lesse i riflessi accoglienti e protettivi della rugiada e del vento dentro lo sguardo di lei e tra le sue labbra.
    Non era come la donna che lo aveva tradito per un gioiello, che lo aveva venduto a un mercante.
    Non era come tutte le contadine dai grembiuli sudici.

    Smise di dimenarsi e riacquistò la propria forma umana, un aspetto che forse lei avrebbe trovato più gradevole, e che gli consentiva di mescolarsi alla pari in quella folla.
    Lei aveva spezzato le sue catene e ora lo fissava.
    Si leccò le labbra, passando una mano guantata sul viso sporco di terra e sangue.
    Lei non aveva paura, lei era forte come le querce o il buio muschioso delle loro tane. Lei era sottile come un giunco che non si piega mai al vento.
    Negli occhi di Gwin brillò una luce di curiosità.
    Camminò lentamente al di fuori, senza nemmeno degnare di un’occhiata tutti gli altri.
    Si fermò davanti a lei, inchinandosi profondamente al suo cospetto.
    Non poteva parlare, ma conosceva le parole, sapeva quello che davanti a lei, forse uno spirito della foresta, forse una dea, si sarebbe dovuto dire.

    Mia signora.
    E gli occhi di lui si facevano acquosi, remissivi.
    Mia signora sarò il tuo servo.
    Mentre la sua mano si stringeva sul petto e la sua fronte si abbassava ancora di più.
    Per te sarò custode e predatore.
    Il sangue sulla sua guancia scivolò fino al mento, un ginocchio toccò terra, mente con una mano raccoglieva quella di lei per porvi le labbra in un omaggio.
    Per te sarò il diavolo in persona.

    Una scena curiosa, ma lui sapeva che era giusto così.
    Lui sapeva che sarebbe dovuto essere di lei e per lei solo. Lo sapeva come sapeva l’arrivo dei temporali nell’annusare il soffio delle nuvole. Lo sapeva come sapeva l’arrivo dei cacciatori dal sussurrare dell’erba.



    Passive In Atto:

    You're a princess,
    Non lo si sentirà mai parlare, non una parola sfuggirà a quelle labbra sigillate, capaci solo di modellarsi nelle più diverse espressioni emotive. Quasi il suo viso non sia altro che la maschera viva su un palcoscenico, protagonista muto della propria tragedia.
    Non per questo sarà difficile comprenderlo. Infatti, per uno strano scherzo del destino, la sua mente è completamente aperta verso l'esterno. Ogni emozione provata scivolerà attraverso i suoi occhi e verrà percepita da coloro che sono in sua presenza come sensazione estranea, come un dialogo senza suono. Egli non potrà mentire, poiché una creatura di tale purezza e integrità non necessita della menzogna.
    Ma solo gli spiriti più fini sapranno interpretare le mille sfumature di una tale profonda sensibilità, il sussurro distante di un'anima. [Passiva che consente di comunicare con lo sguardo le emozioni provate dal soggetto Chi le percepisce può poi cercare di interpretarle a proprio modo.

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    Come fossero naturalmente coordinati per un’azione congiunta, mentre il Paladino respingeva e zittiva con fare imperioso le ultime proteste del mercante, la sua adorata Rosa lo superò per accostarsi alla prigione; le sue manine bianche e delicate circondarono la gabbia d’oro, e il suo potere fece il resto: verdi viticci risalirono il guscio del terreno, e si attorcigliarono alle sbarre con l’abbraccio dolce e seducente dell’edera, salvo poi divergerle e deformarle come fossero state fatte di burro.

    Leon si volse solo un istante, disperdendo la folla con un’occhiata severa, e quando tornò a prestare attenzione all’amata fanciulla e al giovane che avevano appena salvato da un destino troppo crudele, li trovò una con lo sguardo incatenato a quello dell’altro... assorti in una qualche specie di intensa conversazione che si svolgeva tra loro senza il bisogno di pronunciare nemmeno una singola parola.

    Poi, Amelie si fece da parte, riconsegnando la libertà alla creatura, ma quella -anziché accennare a muoversi per allontanarsi e fuggire- riacquistò un aspetto antropomorfo e si arrestò al cospetto della Dama Rossa, per prodigarsi in un profondo inchino...

    Colpito dalla solennità quasi sacrale di quella scena, Leon si tenne in disparte, osservandoli a lungo e attentamente appena qualche passo più indietro: certamente, non era del tutto capace di comprendere cosa stesse avvenendo tra i due, ma il gesto compiuto dalla Fata dava adito a fraintendimenti sul suo animo nobile e generoso... e intuì che anche quella creatura dovesse essere animata da retti e giusti principi da ciò che vide riflesso negli occhi dell’Ermellino.


    Un debito d’onore che un uomo a cui è stata fatta salva la vita
    può ripagare soltanto con la vita stessa.

    Un voto chiamato Gratitudine...

     
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    La figura così candida che aveva innanzi – la stessa che l’aveva fissata prima attonita, poi curiosa, infine remissiva – assomigliava a una di quelle statuine immacolate che si fermava ad ammirare nelle lussuose sale di Lordaeron.
    Piccole, bianche e lucide, sembravano ricoperte di glassa deliziosa.
    Ma per quanto il colore accecante fosse quasi il medesimo – innaturale come lo splendore gelido della neve –, quel ragazzo era innegabilmente vivo e caldo.
    Lo diceva il respiro, lo diceva il suo sguardo. Lo diceva il sangue che gli colava lungo il viso in un rivolo sottile, simile a un taglio fresco, rosso e vivo, inciso nella pelle di latte.

    Come a riprendersi dal senso di irrealtà che l’aveva avvolta, la Fata gettò uno sguardo attorno: poté notare la folla ormai dispersa e Leon immobile in un’attesa rispettosa, a pochi passi di distanza; l’uomo ermellino era ancora ai suoi piedi dopo averle baciato la mano, paziente e immobile come un predatore… o come un penitente.
    Attendeva un cenno, un segnale forse, o anche solo il semplice desiderio di udire la sua voce, stringendo ancora quella mano dal dorso delicato, la pelle sottile come una lamina perlacea, ma più soffice del velluto.
    Sbatté gli occhi, e in quell’istante impercettibile si chiese cosa quel giovane così bianco potesse desiderare udire, ma la fanciulla tenne ancora un momento per sé, lasciando che le parole riposassero sulle labbra.

    Dissolse l’impressione con una scrollata del capo e si lasciò riagguantare dalla contingenza del momento; s’inginocchiò anch’ella, fronteggiando specularmente il ragazzo e guardandolo coi suoi grandi occhi verdi. Erano così intensi che persino lo spazio sembrava potersi piegare sotto la forza del loro sguardo.

    « Io sono Amelie. Lui, invece, si chiama Leon. »
    Esordì dolce mentre indicava il biondo compagno, e al suo tono era intessuto il mormorio gentile dell’acqua corriva
    « Ora lascia che mi prenda cura di te. »

    Tese la mano libera verso la sua fronte e il tepore si dipanò dalle sue dita, seguito immediatamente dal bagliore latteo e scintillante dell’Obeah che risanava le ferite sparse per il corpo con una generosità crudelmente eccessiva.
    Per un attimo il mondo sembrò sparire, e le persone con lui.

    Quando poi la luce s’affievolì e il calore si sciolse, Amelie stava guardando l’uomo-ermellino con occhi vivaci e un sorriso sulle labbra di melograno.

    Era come se quella creaturina racchiudesse dentro di sé il profumo del sole, come se nella sua ombra fossero nascoste – aggrovigliate e pigiate insieme come i nodi dell’edera – sentori d’immagini lontane, di boschi e pizzi di foglie, merletti di rugiada e muschi soffici come bambagia, la fragranza della rosa e l’aroma dell’aglio selvatico, le primule sfacciate e le pudiche campanule affioranti dai tronchi cavi di querce.


    « Sai… »
    Continuò rompendo il silenzio, e la voce si fece ancora più dolce, come sfiorata da una goccia di miele
    « assomigli a un Bucaneve, esile e caparbio come sei.
    Chissà qual è stata la neve che hai dovuto bucare, per venir fuori… »


    Ma era più una riflessione personale che un vero e proprio commento indirizzato all’altro, forse sfuggito alle ferree maglie della concentrazione in un momento di distrazione, impegnata com’era a cercare un fazzoletto che potesse ripulirlo dal sangue.

    « Ma non credo che importi, dopotutto… La Primavera arriva sempre, giusto? »

    Sul palmo aperto della mano giaceva un quadrato di stoffa bianca, e con esso l’invito a una nuova vita.



    Passive da tenere im considerazione:
    Candore del Giglio
    L’aspetto puro e innocente della giovane incarna l’angelico candore delle Fate tanto decantato dai bardi di ogni tempo e tramandato di bocca in bocca in tutte le leggende popolari; non è difatti un caso che le Fate siano descritte come creature di una bellezza radiosa, ma il fascino di Amelie spinge persino ad abbandonare ogni riserva, avversione o diffidenza nei suoi riguardi -donando in cambio un forte senso di tranquillità e conforto-, e la sua sensibilità suscita un tenero istinto di protezione in chi la contempla, facendole spesso guadagnare aiuto e tutela.
    É talmente delicata e dolce -un fiore così puro e inviolato- che offrirle sostegno e riparo sarà un gesto spontaneo e disinteressato, perché la sua tristezza risulta insostenibile anche per il più inaridito dei cuori, e il suo sorriso splendente e bello come la più luminosa delle stelle.
    L’attrazione che promana spezza paura e timori, ispirando il desiderio di aprirsi e confidarsi per la grande pace e serenità sperimentate in sua presenza -sensazioni calde e lenitive come un balsamo guaritore-, purificando e alleggerendo l’aria da ogni negatività e pensiero maligno.
    Tale ascendente inconscio è utile per dirimere questioni spinose, superando qualsiasi differenza -oggettiva o soggettiva che sia- e diffidenza tra le creature; è da considerarsi attivo su chiunque la guardi, sebbene l’intensità della sua bellezza -che lascia spesso piacevolmente storditi, come ebbri- possa provocare reazioni inconsulte in soggetti deboli, animi particolarmente traumatizzati, o semplicemente deviati.

    Tecniche utilizzate:
    Energia Curativa: Imponendo le mani su tagli, ferite, lividi o fratture, Armand può risanare, rigenerare, e curare i dolori altrui con un risultato proporzionale al dispendio delle sue energie; le cure -specialmente se prestate a ferite serie- richiedono vari minuti di tempo, quindi non è possibile attuarle nel bel mezzo di una battaglia, a meno che qualcun altro non tenga nel frattempo occupati eventuali aggressori. Gli effetti dell'energia curativa funzionano anche per emorragie interne, ma non rigenera arti amputati, tuttavia permette di rinsaldarli qualora fossero più o meno integri e disponibili; può risanare ferite inflitte a creature vegetali, piante, animali e qualsiasi altro essere, purché, ovviamente, sia vivente.
    Tale potere non può essere impiegato nei combattimenti, e in quest solo previa autorizzazione del qm.
    Consumo: Medio


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    Amelie.
    Ascoltò quel nome con le palpebre accostate. Poi, senza alcun preavviso, la fissò negli occhi. Le sue pupille erano simili a punti di pece. C'erano lontane immagini in essi. Un nome diverso, una pelle diversa, un tocco orgoglioso.
    Quella ragazzina non chiedeva il contatto con il suo corpo, non risvegliava il suo spirito di animale. Lei aveva bisogno di un servo che la tenesse stretta, che non la lasciasse sopraffare dai nemici, che spezzasse le ossa a chiunque avesse osato avvicinarsi troppo.
    Lei era pura, come l'acqua limpida delle sorgenti. La sua voce era come un canto, il profumo della sua pelle era quello della sua foresta.
    Lei era fresca, e le sue dita curavano le ferite di lui. Il suo sangue aspro smetteva di scorrere, i polpastrelli di lei nei suoi capelli avevano lo stesso effetto della fresca pioggia autunnale.
    Non c'erano più cacciatori o prede, ma soltanto loro due, sospesi nello spazio.
    E la rabbia di lui pareva scemare lentamente, scorreva via attraverso i piedi. Come l'adrenalina dopo la caccia, il terrore che gli faceva contrarre le mascelle.
    Lei gli aveva donato il suo nome, un dono prezioso. Una chiave per la sua anima. Una parola che lui non sapeva pronunciare, ma poteva vedere. Come uno spartito musicale, un trillo cinguettante di gioia.
    Contrasse le labbra in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso. Lui non poteva parlare. Lui non poteva parlare. Non poteva farle un simile dono. Il dubbio si sarebbe insinuato prima, impedendogli di rivelare il suo segreto. Ma nei suoi occhi scintillava la luce accecante della neve, il fiato corto per la corsa, lo sfrecciare delle felci contro il muso.
    E nel mezzo il suo nome, sottinteso, comunicato, incomprensibile.
    Gwin.
    Sono Gwin.
    Dio come vorrei dirtelo.
    G w i n.
    La abbracciò d'impeto, stringendola per pochi secondi tra le proprie braccia. E in un attimo era di nuovo animale e le riposava sul grembo, il muso premuto contro il petto.
    Sono Gwin.
    Portami via con te.

     
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    Nella solennità sacrale di quel momento di silenzio, mentre il bianco figuro indugiava in ginocchio al cospetto della sua amata -come in attesa che ella proferisse qualche ordine-, ella gli si accoccolò a sua volta di fronte, e il Paladino poté udire la melodia della sua voce parlare.

    « Io sono Amelie. Lui, invece, si chiama Leon. »

    La fanciulla dagli occhi di giada e i capelli di fuoco esordì facendo le presentazioni; sentendosi chiamato in causa, il biondo cavaliere spezzò dalla sua pacata compostezza per il tempo di un inchino, per rivolgere -come etichetta richiedeva- un cenno di saluto al prigioniero liberato.

    « Ora lascia che mi prenda cura di te. »
    domandò permesso la voce della Dama, risanando tutto quel che era stato offeso
    « Sai… assomigli a un Bucaneve, esile e caparbio come sei.
    Chissà qual è stata la neve che hai dovuto bucare, per venir fuori… »

    proseguì quella, con il sorriso sulle labbra e la poesia più pura nella mente e nel cuore
    « Ma non credo che importi, dopotutto… La Primavera arriva sempre, giusto? »

    Il ragazzo dai capelli albini, per tutta risposta, fissò la giovane con intensità per un lungo istante; poi -d’improvviso- l’abbracciò, e mentre il Cacciatore inarcava un sopracciglio biondo, chiedendosi se non fosse il caso di intervenire, il liberto riprese le sue sembianze animali, e davanti agli occhi cerulei come il limpido cielo dell’alba non rimasero che una fanciulla ed un candido ermellino.

    Con un’espressione meditabonda a corrugargli la fronte, e un sorriso innamorato ad illuminargli il viso, Leon si avvicinò alla figuretta esile di Amelie; il braccio forte si stese per circondarle le spalle e avvolgerla nella carezza tiepida del suo mantello, racchiudendo anche l’animaletto, e il busto si piegò in avanti mentr’egli si chinava su di lei per deporle un caldo bacio sulle labbra.


    « Portiamolo a casa... »

     
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    Anonymous

    La mano bianca ed esile della Fata si era tesa verso di lui per porgergli un fazzoletto; guardandola negli occhi, con quelle sue iridi scure e profonde come l’abisso -talmente espressive da sembrare in grado di risucchiarla nei recessi della sua anima-, il bianco giovane le offrì in cambio tutto se stesso nella promessa di un solo sguardo: il suo cuore, i sui pensieri, il suo corpo e il suo spirito...

    Naufragando nel piceo oceano della sua vista, l’esile fanciulla si ritrovò circondata dalle braccia del Bucaneve, ma prima di avere anche solo il tempo di arrossire per l’improvviso calore di quel contatto, le spoglie del ragazzo che aveva soccorso trasfigurarono in quelle più piccole, agili e aggraziate di un ermellino dal manto candido... algido...
    Bianco
    -Gwin-, come le cime innevate della sua terra natia.

    E mentre l’animaletto si stringeva spaurito a lei, abbandonandosi al suo abbraccio con gli occhi chiusi, la Dama Rossa sentì la presenza forte e rassicurante del suo Cavaliere palesarsi accanto a sé, e percepì attorno alle spalle il tepore del suo corpo e del suo mantello, che l’avevano avvolta in un gesto protettivo.

    Leon si chinò su di lei, e Amelie sollevò il volto per rivolgerlo verso di lui; suggellarono quell’incontro a mezza strada con un tenero bacio, e dopo che le loro labbra si furono divise, un sorriso sereno e caloroso illuminava il volto radioso della Fata.


    « Portiamolo a casa... »
    disse semplicemente il suo promesso sposo

    « Sì... lo terremo con noi... »
    assentì determinata la fanciulla, cullando la creaturina con gentilezza
    « D’ora in avanti, avrò cura io di te... »

     
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