Dark Wings, Dark Words

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    Il ticchettio pigro dell'orologio da taschino accompagnò il rintocco dei suoi passi sui ricchi marmi della pavimentazione, echeggiando con manifesta eleganza per le alte volte della ricca sala, che aveva già da un paio di secoli rivendicato come suo santuario: affreschi con bellissimi zeloti sul soffitto, arazzi alle pareti, tende di pesante velluto alle finestre, e i migliori arredi che si potessero esigere per quella dimensione e quella società; niente altari per lui -pompose ostentazioni anacronistiche che lasciava volentieri ai vanesi che adoravano farsi adulare-, solo i fasti che si conviene di riservare ad un ospite illustre a cui si ha piacere di tributare i massimi onori.

    Con la stessa familiarità di chi entra in casa sua, il Demone si sfilò il copricapo e lo gettò da una parte, centrando -con una precisione figlia tanto della fortuna quanto dell'abitudine- la sporgenza offerta dalle mani giunte di una fanciulla scolpita nella pietra come decorazione di una colonna, e non appena le scarpe raggiunsero la zona relax, idealmente delimitata dal tappeto antistante il caminetto spento, gli bastò uno schiocco di dita per far divampare un fuoco vivace dalla legna polverosa e dalle fredde braci.

    Lasciandosi andare pesantemente seduto su una delle poltroncine foderate di velluto rosso disposte accanto al caminetto, appoggiò il bastone da passeggio allo schienale prima di portare alla fronte la destra -ora libera- e massaggiarsi lievemente le tempie doloranti: così tanto da fare... così poco tempo, e...
    imprevisti, ostacoli, e problemi che spuntavano continuamente da ogni dove.

    Con un sospiro stanco, si ravviò i capelli e si soffermò a grattarsi la nuca mentre faceva ordine nei pensieri; poi gettò un ultimo sguardo al quadrante dell'orologio -accoccolato nel palmo guantato della mancina- e dirottò gli occhi d'oro sui due contrapposti eserciti di pedine, allineati sulla pedana quadrettata che dominava il basso tavolino, in attesa dell'inizio delle ostilità.

    jpgDal canto suo, non aveva mai obbligato nessuno dai suoi “servitori”, ma... da che aveva stretto il primo patto con la stirpe dei Darcia, quello di giocare una partita a scacchi di tanto in tanto era diventato senza che se ne accorgesse un vero e proprio rituale - ed era solo una di quelle piccole abitudini che il casato aveva scelto di tramandarsi nel tempo di padre in figlio, come una liturgia.
    Immaginava fosse perché cercassero di tenerselo buono; dopotutto -a differenza di molti altri suoi simili- si era sempre comportato in maniera professionale, e in cambio del successo e del potere con cui li aveva investiti, non chiedeva mai più di quanto necessario e sempre meno di quanto avrebbe potuto.

    Con un gesto secco ed esperto del polso richiuse lo sportellino della cipolla segnatempo, e si risolse ad aspettare il suo sfidante: gli aveva inviato un'aquila nera come segnale di convocazione, e -pur senza alcun messaggio allegatovi- confidava che l'altro avrebbe capito; l'associazione tra le sue visite al maniero e la comparsa della bestiola al cospetto del suo protetto era ormai entrata nella consuetudine di famiglia... e poi, di lui aveva una stima particolare.

    Se avesse dovuto stilare una classifica di tutti i Capocasata cui aveva garantito la sua benevolenza, era proprio l'ultimo quello che preferiva: gli era parso perspicace fin da bambino -quando il padre glielo aveva presentato per la prima volta-, quando avevano stipulato il contratto l'aveva trovato determinato e intelligente -doti che aveva sempre apprezzato-, e... quando il dolore e la disperazione avevano colpito la sua vita mortale, e quell'umano si era rivolto a lui perché esaudisse il suo desiderio, il Demone aveva scelto di non venirgli meno.

    Non poteva farci niente, era più forte di lui: aveva sempre avuto un debole per le tragedie, le cause perse, gli amori infelici e le cose spezzate.
    Tenevano viva la sua motivazione.

     
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    L'imponente struttura dell'antico maniero si stagliava nella fredda aria delle altitudini del Nord, torreggiando di fronte alla scura figura mascherata in tutto il suo splendore decadente. Il suo padrone stava per varcarne la soglia, come già altre rare volte aveva fatto in vita sua, e come molte volte avevano fatto prima di lui i suoi ascendenti in occasioni simili.

    Oscuri pensieri attraversavano la sua mente, dubbi che lo rendevano a tratti insicuro e perfino pauroso, sebbene avrebbe preferito morire piuttosto che darlo a vedere. Per fortuna -o per
    abilità-, però, nessuno era lì per vederlo.
    Ogni volta che si presentava di fronte a quel cancello arrugginito, a quei portoni quasi fatiscenti, il cuore gli batteva in petto come un rombo di tuono nelle tenebre della notte, così forte che si sarebbe forse potuto udire perfino da qualche metro di distanza. Per lui era una sensazione devastante ogni volta, una sensazione a cui non era affatto abituato: lui, il grande Darcia III, il Sommo Darcia, era abituato a
    provocare quella sensazione, negli altri. Non a provarla, in prima persona. Lui era un dominatore, un tiranno quasi, lui era uno dei potenti, delle grandi casate di Najaza, per quanto fosse in rovina e decaduto quasi, ma più nei modi e nell'apparenza che nel resto.
    D'altronde, da quel brutto colpo che accusò alla morte della sua amata Hamona non si riprese mai, e gli passarono ben presto tutte le voglie di sfarzo e ostentazione, come testimoniava lo stato di abbandono in cui versava l'antico maniero ed il suo stesso portamento. In ogni caso, però, il suo livello d'eleganza, per quanto potesse scendere in basso, sarebbe stato sempre una spanna sopra a quello dei comuni mortali.

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    Passi pesanti, il rimbombo dei solidi stivali si faceva sentire echeggiando tra le alte pareti gotiche del corridoio. Sembrava lungo eterno, come quel tempo che stava impiegando a raggiungere la sala che ormai conosceva bene.
    Era un salone particolare, non quello grande per i ricevimenti pubblici: era uno più appartato, più intimo, più personale, dedicato agli ospiti importanti che non si mischiavano nemmeno tra tutta la marmaglia dell'alta aristocrazia. Era per le personalità davvero speciali, come il mandante di quel muto messaggero alato dalle piume corvine. Ed a differenza di tutte le altre stanze del castello, era l'unica ad essere tenuta a lustro come si converrebbe nelle migliori case del mondo: non un filo di polvere, non una crepa nel muro, non un singolo elemento sgualcito o rotto o consumato o fuori uso, tutto più che perfetto ed a regola d'arte.
    Una lampante forma di rispetto ed onore, per quell'ospite tanto gradito.

    « Buona sera, mio illustre Signore. »

    La sua voce suonò profonda, solenne, come al suo solito.
    Con la presenza demoniaca nell'aria, la tensione cambiava. Era più familiare, non si sentiva più come un bambino al suo primo giorno di scuola, no: ora era come concludere un affare tra trafficanti di armi. Tesi, sul chi va là, ma con più sicurezza.

    Aggirò l'altra poltrona libera, davanti al focolare, davanti al tavolino adibito a scacchiera, e si sedette con un elegante ondeggiare delle falde del suo lungo mantello. Fissò per un momento la figura seduta di fronte a lui, poi adagiò gli occhi su quelle pedine che l'avevano sempre affascinati: ah, quanti ricordi, quante partite, fin da piccolo. Ma le più emozionanti erano sempre con lui, con quel...
    demone.

    « A Voi i neri, come al solito, sì? »
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    Chiese rialzando gli occhi ed accennando un sorriso d'intesa tra uomini della stessa risma. Come al solito, giocare i bianchi non gli piaceva affatto: era per i neri, lui, sempre. E muoveva quelli, sempre. O quasi: solo in quelle occasioni, concedeva il privilegio di quel colore così bello e letale a qualcuno che riteneva avesse più meriti di sé stesso. Cosa decisamente rara, se non unica. Così come appunto la stima e la fiducia -relativa, s'intende- che nutriva verso quell'entità, che non sapeva mai se definire "uomo" o cos'altro.

    Si passò una coppia di dita, indice e medio, sul monocolo nero per premerlo bene al suo posto, con molta naturalezza e finta calma, mentre tra le sue cellule grigie continuava quel rumore di sottofondo che gli imponeva una domanda angosciosa.

    Per quale motivo era stato convocato?
     
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    Il tonfo cadenzato di passi pesanti echeggiò tra le fredde pietre che foderavano i pavimenti, le volte e i nudi corridoi del maniero, restituendo alle orecchie del Demone il suono dell'incedere solenne con cui il suo protetto rispondeva alla chiamata; comodamente spaparanzato in poltrona, il figuro si concesse un altro sorso di vino rosso mentre attendeva che il Principe dell'Aquila Nera varcasse la soglia di quei suoi alloggi provvisori. Poi, i battenti della doppia porta ruotarono silenziosamente sui cardini bene oliati.

    « Buona sera, mio illustre Signore. »

    La voce profonda e solenne di un giovane uomo -con lunghi capelli neri e un occhio bendato- gli porse quel saluto, e un sorriso intagliò le labbra dell'entità nel ricordare quanto diversa era stata nel timbro e nei toni la prima volta che lo aveva incontrato -ancora bambino- proprio davanti alla stessa scacchiera dove i suoi passi lo condussero a prendere posto. Il

    « A Voi i neri, come al solito, sì? »

    Si scambiarono un cenno di intesa, e Darcia si accomodò sulla poltroncina dirimpetto alla sua, prendendosi un istante ancora per lucidare distrattamente il monocolo nero, mentre attendeva con rodata disinvoltura di scoprire cosa quella creatura -che tanto poco si intrometteva negli affari del Presidio- avesse da dirgli di tanto importante. Non lo avrebbe fatto attendere.

    « Stavolta no, ragazzo mio – stavolta, i bianchi li prenderò io... »
    con tono conciliante rispose alla domanda mossagli, rigirando la scacchiera
    « Voglio che tu sia al meglio delle tue possibilità per i prossimi tempi:
    il traguardo che ti ho promesso è vicino, ma... temo che siano in arrivo complicazioni. »


    Nel trasmettergli quella notizia, il Demone non sollevò lo sguardo dal campo quadrettato, e non lo guardò in faccia neanche dopo che ebbe eseguito la mossa di apertura, avanzando il pedone bianco di due caselle; evitò un nuovo contatto di sguardi, ma non perché temesse una reazione, ma solo perché non ce n'era bisogno: gli piaceva pensare che quell'umano lo conoscesse abbastanza da sapere che non era tipo da creare problemi senza presentare anche qualche soluzione.

    « Una donna blu come lo zaffiro viaggia verso la Città delle Stelle Cadenti:
    guardatene, perché la sua sola presenza sarà fonte di un mucchio di problemi. »

    annunciò, col fare distratto e rilassato di chi parla sovrappensiero
    « Negale ogni appoggio, assicurarti che stia lontana dai nostri affari... Se puoi, uccidila.
    Bada solo a non lasciare niente che riconduca a te: pare che ad Est sia una persona importante. »

     
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    « Stavolta no, ragazzo mio – stavolta, i bianchi li prenderò io... »

    Un'impercettibile vibrazione del sopracciglio dal lato del monocolo indicò la sorpresa ed il timore, lo stato di allarme mentale insomma, da cui l'aristocratico nobiluomo venne colpito all'udire tali parole. Un cambio di consuetudini del genere poteva far presagire di tutto, e non era mai stato abituato a cosa aspettarsi da lui.

    « Voglio che tu sia al meglio delle tue possibilità per i prossimi tempi:
    il traguardo che ti ho promesso è vicino, ma... temo che siano in arrivo complicazioni. »


    « ... »

    Strinse gli occhi, rendendo il suo sguardo tagliente tanto che si poteva avere il dubbio che fosse diventato in grado di decapitare il re avversario a distanza, solo fissandolo, come stava facendo.
    Oh. Be', allora...Se quella era la premessa, i neri sarebbero stati più che appropriati.
    ...Qualsiasi ostacolo. Qualsiasi complicazione. Chiunque o qualunque cosa avesse osato mettersi in mezzo tra lui ed il suo obiettivo...sarebbe stato spazzato via senza alcuna pietà! L'avrebbe distrutto con le sue stesse mani. Niente e nessuno doveva intralciare la strada verso l'agognato Raquen. Verso la sua amata Hamona.

    Il demone ruotò la scacchiera, porgendogli così il nuovo esercito delle tenebre, e fece la sua mossa d'apertura.

    « Una donna blu come lo zaffiro viaggia verso la Città delle Stelle Cadenti: guardatene, perché la sua sola presenza sarà fonte di un mucchio di problemi.
    Negale ogni appoggio, assicurarti che stia lontana dai nostri affari... Se puoi, uccidila.
    Bada solo a non lasciare niente che riconduca a te: pare che ad Est sia una persona importante. »


    « ...Sarà fatto. »

    Un tenue e lontano ringhio, non più di un bisbiglio di un'anima antica e distante nel tempo, sembrò emergere dai meandri dello stomaco dell'uomo, prima che rispondesse con quelle due parole secche e cattive. Il suo sguardo si faceva sempre più carico di odio, mentre il pollice e l'indice si serravano attorno alla testa del cavallo nero, il pezzo più insidioso, astuto ed infido dell'intera squadra.
    Esattamente come esso, egli si sarebbe mosso nell'ombra, per vie traverse, aggirando ostacoli, saltandoli, incombendo da provenienze inaspettate. E la scelta stessa di quel tipo di apertura denunciava platealmente e consapevolmente la sua volontà di non perdere tempo coi lenti pedoni, bensì di voler partire di gran carriera con qualcosa di pratico ed efficace.

    Ucciderla. Una febbricitante follia cieca e violenta stava nascendo nel suo intimo, placata e frenata dal suo razionalismo strategico. Ucciderla. Avrebbe desiderato con tutto il cuore stringere le sue mani guantate di nero attorno al diafano collo di questa "donna color zaffiro". Ucciderla. Avrebbe tentato in molti modi -mai mettendo a repentaglio le possibilità di raggiungere l'obiettivo vero, però- di far convergere le sue tattiche fredde verso una situazione in cui esprimere quel suo desiderio caldo, caldo come il sangue che ribolle.
    Strano, inconsueto, un tale trasporto per lui: sempre così freddo e calcolatore, così apatico perfino. Eppure così logico e perfettamente coerente, per chi l'avesse conosciuto veramente anche un minimo, cosa che lui non permetteva quasi mai: una tale freddezza spietata poteva manifestarsi solamente a causa di un fanatismo che trascendeva le altre vite. Perché l'unica vita di cui gl'importasse qualcosa era quella in cui poteva vivere al fianco dell'unica persona che contasse veramente qualcosa per lui. Molto semplice, molto lineare: un obiettivo, d'importanza assoluta, unica e totalizzante, ed ogni mezzo diventa lecito.


     
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    « ...Sarà fatto. »

    Il suo protetto accolse la richiesta del proprio patrono nel miglior modo auspicabile -con compostezza e senza fare domande-, e mentre una chiostra di denti bianchi e affilati faceva capolino dalle labbra, un sorriso compiaciuto -come quello di un padre orgoglioso della sua creatura- intagliò le labbra del Demone: sentiva l'odio che animava il cuore di Darcia risuonare con il proprio... e non potè che esserne fiero.

    « Bene... direi che per stasera possiamo mettere da parte gli affari. »
    intercalò il Daedroth, spostando un altro pezzo con un'alzata di spalle
    « Ho proprio bisogno di distrarmi un po'... »

     
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    « Bene... direi che per stasera possiamo mettere da parte gli affari. Ho proprio bisogno di distrarmi un po'... »

    Annuì, l'uomo avvolto nel mantello scuro, muovendo la sua torre. Nel silenzio della partita, nel silenzio dei calcoli strategici su come muovere le sue pedine, Lord Darcia stava già meditando su come muove muovere le altre sue pedine, secondo quali strategie più grandi. Giocare a scacchi l'aveva sempre rilassato, un'attitudine presa forse dal suo patrono, e lo aiutava anche a mantenere la calma e la mente fredda e lucida, in quella difficile situazione che lo richiedeva a gran voce.
    Terminata la partita, la sua voce risuonò ancora una volta tra le tetre pareti di pietra adornata del locale, accompagnata da un sorrisetto furbo e tagliente, come si addice a uomini di loschi affari come loro.

    « Manderò subito i miei uomini più fidati a sorvegliare gli arrivi.
    Come al solito, è stato un piacere ed un onore.
    A presto, spero. »


    E come disse così avrebbe fatto: senza perdere tempo inutilmente, poiché la questione era di massima importanza ed urgenza, tornò immediatamente alla sua residenza quotidiana e da lì iniziò a disporre ordini e piani, come se l'intera città fosse una sua piccola, privata scacchiera. Come era sempre stata.


     
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