Il Silenzio nella Moltitudine

Il sentiero della Trascendenza

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    deva


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    Quando suo padre morì, Namas aveva già vissuto abbastanza della vita di un Nagavandari per capire che niente sarebbe stato come prima.
    Non che la quotidianità potesse soffrirne quanto il suo inesperto cuore da Principe: come discendente e condottiero Brahamana, il genitore dell'uomo-serpente aveva speso molti giorni distante dal Picco Fantasma, affidando il figlio alle cure di anziani e tutori, facendolo crescere nel tiepido ricordo di una figura mai presente.

    Tuttavia, nonostante quel legame sottile come nebbia in una fessura di roccia e terra, fu suo padre il primo pensiero che fulminò l'istinto di Namas il giorno in cui gli venne chiesto di sostenere la Prima Prova.
    Aveva intrapreso il cammino verso la Trascendenza con un anticipo di tutto rispetto a cofronto dei suoi coetanei: mentre le malevoci lo ferivano, serpeggiando
    -è proprio il caso di dirlo-
    di bocca in muscolo,
    egli forgiava la propria anima sotto il corrosivo fuoco delle avversità.

    La chiamavano "Il Silenzio nella Moltitudine".
    Ed era la Prima, ma non per questo meno atroce, Prova alla quale i Detentori del Segreto chiedevano al Principe di sottoporsi: molte lune, molti soli, un anno della vita di un comune umano passato lontano dalla terra natìa.
    Un anno vissuto con una falsa identità.
    Un anno nel quale gli sarebbe stato proibito trovarsi in completa solitudine, un anno nel quale almeno un essere vivente capace di interagire con lui sarebbe dovuto sempre trovarsi entro tredici piedi dal guerriero.

    Un anno di una vita umana, nel quale tutte queste regole sarebbero apparse come una goccia nell'oceano se comparate al vero ed unico vincolo: il divieto, totale ed inderogabile, di comunicare con qualsiasi forma di vita dotata della parola.
    Nessun dialogo, nessuno sguardo che sottendesse ad un'emozione.
    Nessun contatto diretto, neanche fosse significato salvare un uomo o una donna da morte certa.

    Il giorno in cui abbandonò il Picco Fantasma, Namas pensò a suo padre.
    Pensò alla gelida distanza che aveva perennemente definito il loro rapporto, segmentato persino i loro abbracci
    -rari e rarefatti-
    fino a violentare qualsiasi calore avesse mai abitato quello spazio di cuore riservato agli affetti.

    Un anno, un anno intero di passi fra moltitudini di persone, col capo chinato, le dita strette a pugno affinchè nessuna di esse sfuggisse al controllo e prendesse per mano un altro umano, un'altra creatura.
    Alcuni saggi lo avevano avvertito: anche se in mezzo ad una carovana di anime nel deserto, egli avrebbe provato il gelo più pungente.
    Il freddo che abita l'esilio, la brina che spezza tutti i più reconditi terrori e silenzi.
    Già, il silenzio.
    In tutto quell'opprimente silenzio, annaffiato dal brusìo che vibrava oltre la pelle ed i suoi sensi, Namas comprese il senso ed il significato del suo corpo: esso era una mera parete fra l'universo dentro di sè e quello nel quale la sua esistenza veniva proiettata.
    Egli era il mezzo, il tramite, e contemporaneamente il fine.
    In mezzo alla moltitudine, egli aveva sondato, con una profondità indescrivibile, il silenzio della sua mente.

    E li, aveva trovato calore.

     
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