L'arrivo dei Lilim

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  1. Dogbert
     
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    Silenzio.
    Oscurità.
    È come non esistere. Non essere mai nati. Essere ancora nell’utero materno. È bella sensazione. Dura un attimo solo, però.
    Il buio dell’inesistenza si macchia di luci. Spie, schermi si accendono in rapida sequenza. Occhi neri si spalancano nel silenzio rotto da cicalii allarmanti. La stretta improvvisa e sgradevole della gravità afferra lo stomaco. Caduta libera. Le mani scattano rapida sulle maniglie di comando degli aerofreni. Le tira a sé con forza. Uno scricchiolio gli fa salire un brivido sulla spina dorsale. Per un attimo ha creduto di averne usata troppa e di aver divelto i comandi. I comandi rispondo, la discesa si fa più controllabile. Sullo schermo principale appaiono i dati più importanti: velocità, posizionamento, distanza dal suolo. Il conto alla rovescia. Dieci secondi all’impatto.
    I muscoli tesi in un fascio di nervi. Trattiene il respiro. Indurisce i muscoli dell’addome istintivamente. Come se stesse per incassare un duro colpo allo stomaco. Il sistema di supporto vitale è realizzato per attivarsi immediatamente dopo il salto. La telemetria si attiva dopo tre secondi. I sistemi di rilevazione esterna dopo venti. I sistemi di comunicazione dopo trenta. A conti fatti, avrà sette secondi di buio. Sette secondi fra l’impatto e le prime rilevazioni di ciò che c’è al di fuori della capsula. Se sia un mondo sterile, bruciato dalle radiazioni di un sole impietoso. Se sia freddo, glaciale, inospitale. Se stanno finendo in un gorgo primordiale di magma ribollente. Se possono respirare liberamente. Se sono destinati a vivere ancora un po’ o a morire come cani qui, adesso, dopo essere stati sciacquonati da un cesso cosmico come due stronzi. Serra i denti. Si tiene stretto alle maniglie.


    In cielo, due comete appaiono. Dal cielo, due comete cadono al suolo.



    L’impatto è devastante. Sempre. È come farsi schiacciare dal mondo intero, come essere investiti in pieno da un’esplosione, come tre ore di pestaggio scaricate addosso in una frazione di secondo. Rimane stordito. Sette secondi. Attende ad occhi chiusi.
    Un ronzio familiare gli fa aprire gli occhi. La rilevazione esterna comincia a funzionare. Su tre diversi schermi cominciano a saettare dati, numeri, rilevazioni. L’unità di elaborazione della capsula freme eccitata dalla mole di dati che riceve dai sensori esterni. I primi valori delle analisi cominciano ad arrivare. Solo in quel momento si permette di tirare un sospiro e di rilassarsi un po’. Preme il tasto che attiva la comunicazione fra le capsule.


    «Ian? Mi senti?»

     
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    Il calcolo delle probabilità è rilassante e divertente, per chi sa di cosa si sta parlando. Per tutti gli altri invece è solo un misto di fortuna, sfortuna e coincidenze. Secondo Ian, invece, era solo un modo per passare il tempo mentre l'unico oblò della capsula spaziale era rivolto verso il suolo - come una sorta di finestra sulla realtà, con annessa vocina che ti sussurra nella testa "Immagina che i freni non funzionino... immagina cosa potrebbe accadere... immagina Javier che ruba tutte le cose dal tuo armadietto..."

    Tirò fiato per aprir bocca e parlare ma la morsa allo stomaco e la visione sgradevole gli fecero cambiare idea. Terza missione dimensionale, terzo atterraggio di faccia; Il tutto offerto dalle sue impeccabili doti di premere pulsanti al momento sbagliato, soprattutto quando la capsula offriva l'opportunità di entrare in comando manuale per la fase di attracco.

    A conti fatti, però, vedere quel puntino lontano che poco a poco si trasformava in una città non era affatto male. Tante torri, puntini che andavano e venivano; Un quadro rilassante, insomma. Almeno finché non realizzò che probabilmente, vista l'angolazione, stava puntando proprio una di quelle torri.

    «Errhmm..»

    Lo sguardo saettò da un angolo all'altro della capsula sferica: non era così difficile cercare qualcosa in uno spazio vitale di circa un metro e mezzo quadrato. La cosa difficile era sapere cosa cercare. E tentare di individuare come mai ci fossero degli angoli al suo interno - ma quello era chiaramente un obiettivo secondario.
    Dopo un paio di secondi - e fin troppi metri percorsi verso il suolo - si arrese. Capì che non aveva scampo: avrebbe preso in pieno quella costruzione. Non era preoccupato per le eventuali vittime; La cosa che lo faceva sentire scomodo, come quando ci si siede su un cuscino sgualcito, era che la maggior parte delle torri che conosceva avevano i tetti appuntiti. E, con la fortuna che si ritrovava, era possibile che tramite un rapido susseguirsi di coincidenze una di quelle punte sarebbe riuscita a perforare l'oblò della capsula, uccidendolo.

    "Potrebbe essere il caso di fare testamento..."

    Prima che potesse fare una qualsiasi cosa, la capsula inizializzò il processo automatico di frenata: alle sensazioni sgradevoli di cui sopra, si aggiunse il dolore delle cinture che lo tenevano agganciato al sedile. Cinture assicurate molto bene, malgrado avesse il vizio di allentarle e ristringerle diverse volte solo perché una volta lì dentro non riusciva mai a liberarsi del classico prurito dietro la schiena.
    In men che non si dica, il tremendo impatto con il suolo lo distrusse sia fisicamente che moralmente. L'oblò era rivolto verso l'alto: poteva vedere solo il cielo... e non poté fare a meno di pensare che era strano che non fosse grigio topo.
    Al rumore gracchiante dell'altoparlante smise di fissare quel poco che riusciva a vedere, volgendo lo sguardo verso i comandi. Alcuni post-it con le indicazioni su cosa-facesse-cosa si erano staccati a causa dell'urto. Premette il primo tasto che lo ispirava e...

    Pss-PFFFFFFF

    Aveva aperto il portellone.
    Ne premette un altro e...

    PFFF-ssss-BAM.

    ...beh, era lo stesso della prima volta, quindi il portellone si richiuse.

    «Mmm...»

    Doveva fare molta attenzione, dato che era abbastanza sicuro della presenza di un sistema di autodistruzione. Optò per aspettare che Rudolf si spazientisse di non ricevere risposta, venendolo a cercare.

    Anche se non si capisce dai post, sono stati teletrasportati prima di schiantarsi su Laputa: nel giro di un paio di turni se ne renderanno conto anche i pg. E a quel punto chiederemo a qualche anima pia di venirci a raccattare :omg:
     
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  3. Dogbert
     
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    Di nuovo silenzio.
    Non quello del salto dimensionale, non quel breve momento di non-esistenza. Quello è un silenzio d'obbligo, in cui speri di riapparire tutto intero. Questo è un silenzio che agita.

    «Ian.»

    Ancora silenzio.
    Stringe con forza gli occhi, innervosito. Non lo percepisce.
    Ian è morto. Spappolato a terra. Finito nella delicata boccuccia di un insetto grande quanto un palazzo. Cotto a puntino nel magma.
    Bene. Bene no? Bene. PERFETTO.
    Controlla solo i dati essenziali dai monitor. Ossigenazione dell'atmosfera al 23%. Temperatura 23 gradi. Pressione atmosferica 1103 mbar. Un rapido scan del guanto nei dintorni conferma quanto raccolto dalla navicella. Al resto pensa il suo istinto, niente nel raggio di trenta metri che lo voglia usare come stuzzicadenti. Per ora. Preme il pulsante di apertura del portellone mentre la battlesuite lo avvolge con discreta rapidità. Non appena ha uno spiraglio sufficientemente ampio per saltare fuori si catapulta all'esterno con un balzo. Non è un bello spettacolo per un ipotetico spettatore. Due navicelle aliene precipitano dal cielo e da una di queste, pochi secondi dopo, ne esce una specie di feroce demone dall'aspetto minaccioso, probabilmente assetato di sangue e affamato di viscere umane. Non si allontanerebbe neanche troppo dalla verità il suddetto osservatore, fra l'altro. Ci sono modi migliori di presentarsi, ecco tutto.
    Si guarda rapidamente attorno. La sua attenzione viene catturata istantaneamente dalla città di fronte a sé. Un brulicar di vita che ammetterebbe non essersi atteso. Alte mura di cinta, guglie a perdita d'occhio. Una visione quasi irreale dopo aver sperimentato altri mondi quasi esclusivamente di merda. Ha solo un commento che gli viene spontaneo.

    «Minchia.»

    Riprende a guardarsi attorno. La capsula di Ian si trova ad una cinquantina di metri alla sua destra. Nessun pericolo nei dintorni. Si avvia.
    La prima ventina di metri passano con ritmo marziale, poi, quando percepisce la sua mente, rallenta. Imbarazzo. Lo sente distintamente. Il che significava almeno due cose: Ian era vivo e aveva fatto qualche cagata.
    Arrivato da lui si affaccia sull'oblò e bussa tre volte con poca grazia.

    «E alloraaaa... Vuoi uscire o almeno rispondere? Cos'è, devo tirarti fuori io?»

     
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    Si sentiva un po' come la donzella delle fiabe, quella imprigionata nella torre che aspetta il principe azzurro per essere salvata. Un principe azzurro che ce ne stava mettendo parecchio, di tempo. Se la prendeva comoda, come se non fosse successo nulla. Come se "ehi, tranquillo, non sei intrappolato in una capsula spaziale".

    «...mmm.»

    Effettivamente non era intrappolato, e non si sentiva neanche in pericolo. L'unico monitor acceso gli comunicava chiaramente che l'atmosfera era ottimale, inoltre sembrava non ci fosse proprio nessuno nelle immediate vicinanze. Questo almeno finché Rudolf non fu ad una trentina di metri da lui.

    Cominciò ad armeggiare con le cinghie del sedile, che nel frattempo si erano avvinghiate come dei parenti attorno all'eredità dei nonni. Iniziò con calma e delicatezza, tentando di sganciarle nella classica maniera: premere il pulsante centrale dove si incrociavano. Visto il fallimento del primo tentativo, optò per tentare di allentare i vari anelli delle cinghie per evitare che lo stringessero e... niente da fare.
    Iniziò a premere quindi senza sosta il pulsante, tirando prima una cinghia e poi l'altra, iniziando a dimenarsi come se fosse stato abbracciato da un pitone contro la sua volontà. Poi, improvvisamente, si fermò e rimase spalmato sul sedile: mezzo secondo dopo, vide Rudolf bussare sull'oblò.

    «Se...»

    Pss-PFFFFFFF

    Quando il vapore e la polvere si diradarono, la figura di Ian tornò nuovamente visibile: era ancora legato al sedile; La mano sinistra era tesa verso il compagno d'arme; L'espressione sul volto era a dir poco distrutta e rassegnata, come quella di una persona morente.

    «Sen... pai...»

    La voce suonò spezzata, come se stesse facendo fatica a parlare. Nel frattempo la mano sinistra prese ad agitarsi per tentare di afferrare quella di Rudolf. Sembrava comunque un'agitazione svogliata.

    «Ho... f-freddo...»

    Fece un paio di colpi di tosse strazianti, come quelli delle vecchie telenovelas spagnole. Subito dopo, lo sguardo da cane bastonato tornò sul suo amico. Era come se Ian volesse dirgli qualcosa, con quegli occhi tristi.
     
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  5. Dogbert
     
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    «...»

    Impone il palmo della mano destra verso Ian, ben rigido. Uno scatto del pollice verso l'interno ed esso emette un sottilissimo click appena udibile.

    «Questa finisce dritta nella collezione di foto imbarazzanti.»

    Porta le mani chiuse a pugni sui fianchi, in attesa. La battlesuite ritorna allo stato integrato originario, lasciandolo con uno dei suoi abbigliamenti più classici: giubbotto di pelle nera foderato di pelliccia di lupo bianco, jeans neri, scarponi militari e coda di lupo. Meglio non dare dell'occhio, vista la città.

    «Dai non dirmi che ti sei incaprettato da solo con le cinture come su Klendathu. Ti lascio qui sà? Non è che non vedere insettoni giganti pronti a smembrarti significa che non ci siano.»

     
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    Ormai era così abituato che quando lo vedeva mettersi in posa per scattare una foto, faceva ben attenzione a rimanere immobile aspettando il fantomatico click. Era un modo come un altro per avere dei ricordi da condividere con il resto della squadra.
    Appena udito il solito suono che lo liberava dalle sue pose plastiche sbuffò, riprendendo ad armeggiare con la cintura di sicurezza. Il pulsante sembrava incastrato ma lui continuò imperterrito, almeno fino alla parola "insettoni giganti". A quel punto divenne serio. Sul serio.

    «Dici seriamente?»

    La serietà durò ancora tre secondi netti, dopo i quali abbassò lo sguardo, assunse un'espressione disgustata e tentò - malgrado l'incaprettamento - di poggiare il lato destro contro il sedile, mettendosi in posizione fetale e mormorando «no...gli insetti no...» come i bimbi che si lamentano ma hanno troppo sonno - o sono troppo rassegnati - per far valere le loro proteste.
    Il movimento laterale, fra l'altro, permise al bottone di sganciarsi; Era semplicemente inceppato perché veniva premuto ogni volta con la foga di uno in crisi d'astinenza. Sorpreso dall'avvenimento, Ian si tirò su di scatto, spuntando dall'abitacolo fino a mezzo busto: si guardò attorno, notando subito le mura di cinta della città che aveva visto prima.

    Le mura di cinta.

    ...le mura di cinta?!

    «Ma... non ci stavamo schiantando sulla città? Come siamo finiti qui?»

    Si tirò fuori dalla capsula aiutandosi con le braccia; Anche lui, seguendo l'esempio di Rudolf, era rimasto con gli abiti normali indosso: pantaloni mimetici militari, anfibi neri, t-shirt nera con l'immagine di loro due che brindano al pub. Prese anche il suo borsone da viaggio, con all'interno altri cambi e le sue due spade. Poi si voltò verso il commilitone in attesa che dicesse qualcosa di intelligente.
     
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  7. Dogbert
     
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    «Siamo due alieni appena giunti su un pianeta sconosciuto con l'intento di depredarlo di tutte le materie prime utili, di cui uno piccolo e incazzoso e l'altro grande e grosso.
    Se eri pelato potevamo farci chiamare Vegeta e Nappa.»

    Si volta e si incammina verso la sua capsula, diretto a prendere la sua roba. Continua a parlare, anche ad alta voce.

    «Non ne ho idea, non guardavo il panorama. Piuttosto, chiudi bene la capsula. Torneremo a recuperarle il prima possibile.»

    Tornato al suo mezzo vi rientra per qualche secondo ad analizzare le rilevazioni compiute nel frattempo. Tutti i parametri sembrano in regola per un pianeta abitabile e sfruttabile. Quasi tutti. Si acciglia quando nota qualcosa fuori norma.

    «Mhm... C'è una strana radiazione di fondo qui.»

    Stacca il modulo di controllo e il data storage. Li infila in uno zaino militare che si assicura poi sulle spalle. Salta di nuovo fuori, in posa anche abbastanza eroica. Inspira a fondo. Di fronte a lui un mondo nuovo, sconosciuto. Dovrebbe avere paura. Ma non ne ha.
    Chiude con il comando manuale esterno la capsula e si incammina nuovamente verso Ian.

     
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    Annuì e poggiò il borsone a terra, girando attorno la capsula per riuscire a chiudere il portellone dall'esterno. Successivamente controllò di aver preso tutto, un passaggio che avrebbe dovuto fare sicuramente per primo.
    Soddisfatto di ciò che aveva visto - per una volta aveva sbagliato ma non troppo - si mise il borsone a tracolla e si incamminò verso Rudolf. Dopo un paio di passi cambiò direzione e scattò verso la propria capsula, tuffandosi sull'oblò per tentare di vedervi all'interno. Rimase così per una manciata di secondi, mentre con le mani tentava di farsi ombra per vedere meglio.
    Scese dal mezzo dimensionale strusciandovi sopra, come se fosse un invertebrato, finché i suoi piedi non toccarono il suolo. Poi si girò verso il suo amico, che era sulla via del ritorno.

    «Radiazione di fondo?»

    Si spolverò grossolanamente i vestiti, processo dopo il quale starnutì con la brutalità degna di un orco. Rimase scioccato per qualche istante dall'essersi fatto prendere alla sprovvista da sé stesso, quindi tornò a guardare Rudolf.

    «Io l'unica cosa strana che avverto è un leggero mal di testa, ma nulla di esagerato; E' più che altro come un prurito che non posso grattare.»

    Si voltò verso le mura di cinta.

    «Ah... per caso ho lanciato a te i miei occhiali da sole? Non riesco a trovarli da nessuna parte.»
     
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  9. Dogbert
     
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    «La radiazione cosmica di fondo. Ha valori anomali. Andrebbe approfondita. Nulla di preoccupante comunque. Credo. Sempre meno preoccupante di un hooded nigga, almeno.»

    Si tocca la testa istintivamente. È vero, anche lui stava subendo gli effetti di una leggera emicrania. La cosa lo infastidisce: sarà stato il trasporto. Venire smolecolarizzato, impacchettato in onde gravitazionali e spedito col pony express in un'altro universo suona come un processo stressante. Deglutisce con un po' di sforzo, a disagio. Continua a guardarsi attorno. Non percepisce pericoli e nonostante ciò qualcosa nell'atmosfera non lo mantiene vigile ma tranquillo come dovrebbe essere.
    Solo quando affianca Ian parla nuovamente.

    «Se intendi quei cosi orrendi usciti fuori da una sitcom anni '80 no, non li ho visti. Non è che li hai lasciati indietro?»

     
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    Scrollò le spalle come per dire "mah, boh, può essere, mi conosci e sai come sono fatto quindi potrei averli lasciati indietro, oppure potrebbero essere ancora nella borsa che non ho controllato bene quanto avrei dovuto. Pazienza. Ci darò un'occhiata più tardi."

    Era molto espressivo.

    «Senti, che facciamo bussiamo? Ad occhio e croce direi che le probabilità di essere accolti sono superiori a quelle di essere inseguiti ed uccisi. Del resto il non essere stati sparaflesciati da qualcosa qui sul posto significa che non ci sia un'ostilità di livello tre.»

    Continuò a guardare le mura, grattandosi la guancia destra.

    «...o forse significa che non hanno ancora sviluppato ed implementato sistemi di sicurezza con una gittata simile, quindi aspettano di averci a portata per farci implodere.» Si voltò verso Rudolf. «Andiamo a scoprirlo?»

    E si incamminò tranquillo e spensierato, come se stesse andando a fare un picnic: si guardava attorno sorridente, si godeva il leggero venticello che gli scompigliava i capelli, il sole che gli riscaldava la pelle e l'assenza di insettoni giganti nelle vicinanze.
     
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  11. Dogbert
     
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    Sbuffa dal naso energicamente. Uno sbuffo che ha il sapore di un "Boh guarda, mi sento profondamente a disagio qui. Questo posto potrebbe anche essere abitato da creature verdi con sette braccia che vedono quindici colori. Probabilmente saremo attaccati a vista. O potrebbe essere disabitato, la civiltà che ha costruito tutto ciò potrebbe essersi estinta millenni fa e ora tutto ciò che ne rimane sono queste pietre poste a monito della loro scomparsa, come simbolo per i viaggiatori intergalattici della caducità della vita e dell'illusione dell'eternità.".

    Rudolf ha un naso molto espressivo.

    Si incammina dietro Ian con una punta di svogliatezza, abituato sua alla pacatezza. Eppure c'è qualcosa che non torna...

     
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    Ad ogni passo in avanti i particolari delle mura aumentavano sempre di più. La prima cosa che notò fu la grandezza dei blocchi che le componevano. Erano... esagerati. Quasi intimidatori.
    Successivamente notò che le porte, abbastanza grandi da far passare la maggior parte dei veicoli che lui conosceva, presentavano un'apertura più piccola per i pedoni. E c'erano delle guardie. Serissime.

    «Oh, c'è vita.»

    Puntò il dito indice in direzione della prima guardia che aveva visto, voltandosi verso Rudolf mentre camminava.

    «Visto? Proprio lì, con addosso quella che penso sia una divisa. Abbastanza strana, fra l'altro. Forse però c'entra il fatto che siamo noi gli alieni... comunque che dici, gli parliamo?
    Parlo io?
    Meglio se parliamo entrambi?
    Oppure preferisci la tattica "ti fisso e resto immobile ed in silenzio finché non ti stufi di me"?»

    Continuò a blaterare per circa una decina di opzioni diverse, fra cui tirargli un sasso e scappare o lanciare una moneta per decidere chi lo avrebbe invitato fuori a cena. Il tutto guardando Rudolf, senza accorgersi che la guardia li stava fissando malissimo, e che dato lo scarso rumore in quel frangente aveva con molte probabilità ascoltato parecchio della seconda parte del monologo.
    Quando Ian si voltò verso le porte, notando l'espressione della guardia, rimase interdetto. La bocca smise finalmente di produrre suoni e gli occhi non sbatterono più le ciglia.
    Sapeva d'essere stato colto con le dita nella marmellata... ma non sapeva d'aver camminato così tanto da arrivargli a cinque metri di distanza. Non se l'aspettava. Più o meno.
    Era il più pericoloso nemico che conosceva. Riusciva a guastare i suoi stessi piani senza rendersene conto.
    Si schiarì la voce con un colpo di tosse, coprendosi la bocca con la mano che prima indicava l'uomo.

    «Salve.» L'espressione tornò normale. «Vorremmo... entrare. Se possibile. Ci siamo appena schiantati.»

    Un attimo di silenzio, gli occhi fissi su quelli del suo interlocutore.

    «...e ci terrei a chiedere umilmente perdono per quanto accaduto.»

    Disse, consapevole della sua condizione clinica.
     
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  13. Dogbert
     
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    Il motivo della sua profonda inquietudine si chiarisce nella mente mentre si avvicina alla città.
    La guerra non lo ha mai spaventato. È una madre generosa coi Lilim: li allatta con fuoco e violenza. Li fa crescere forti, crudeli. Il conflitto fra Elbonia e Kneebonia dura da così tanto che.. C'è mai stato un periodo di pace? E lui aveva perduto molto tempo prima tutto ciò che potesse tenerlo distante, ancorato lontano da una escalation su base quasi giornaliera.
    Da quando aveva terminato l'addestramento a Felsedorf con il Sergente Hogan era stato colpito, malmenato, tramortito, trafitto, pugnalato, bruciato. Era stato e si era messo in pericolo in così tante occasioni da considerarlo quasi lo stato naturale della sua vita. E lui, in ogni situazione, era rimasto uno smargiasso.
    Qui, però...
    Niente distesa di lava. Nessun deserto radioattivo a perdita d'occhio. Nessuna minaccia aliena. Nessun mostro dello spazio profondo. Una città. Solo una città.
    Capite l'inquietudine di trovare il normale dove era atteso l'anormale?
    L'eventualità di trovare una civilizzazione evoluta era stata affrontata in briefing: cosa fare, come comportarsi, come discernere se fosse ostile oppure amichevole. Nemmeno per un secondo, però, Rudolf considerò come realistica l'ipotesi. Eccolo qui che nasce allora, il disagio.
    Dal suo punto di vita, poi, questo complica le cose. La sua scaletta era arrivare, sopravvivere, trovare il cromo, organizzare la prima spedizione di estrazione e tornare a casa. Fine. Semplice, pulito, a modo suo elegante. Al peggio si aspettava animali grandi come palazzi da abbattere. Si sarebbe risolto tutto con l'uso della forza bruta, e il piano gli andava a genio. Una città significa esseri viventi senzienti, evoluti. Significa che esiste una società. E una società implica istituzioni, lotte per il potere, interessi economici, tradimenti. Significa un bel po' di cose, incluso il non poter arrivare, sfasciare tutto, prendere ciò che vuoi con le cattive e passarla liscia a lungo. La missione si rivela come un lavoro sporco, per la sua concezione.
    E sarebbe durata molto più a lungo di quanto volesse.


    Resta in silenzio quasi religioso durante lo sproloquio di Ian. Sente la sua agitazione strisciargli addosso, risalire lungo la schiena con lentezza, come fosse una serpe con scaglie gialle e verdi. Rimane teso, concentrato.

     
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    Malgrado la quasi balbettante richiesta di perdono, la guardia rimase seria e silenziosa. Si limitò a squadrarli da capo a piedi, soffermandosi di più su Rudolf: era così teso che non serviva leggergli la mente per percepire la sua inquietudine. Un'inquietudine che in parte aveva effetto anche su Ian, che di suo riusciva a provare ben poco senza la vicinanza di un commilitone.

    Proprio quando il lilim tirò fiato per parlare, la guardia gli impose l'alt con la mano e proferì agli indirizzi di entrambi. Spiegò loro che si trovavano a Laputa, e che per concedergli il passaggio sarebbero dovuti essere censiti e perquisiti.

    «Beh... non credo sia un problema, no?»

    Si girò verso Rudolf per trovare conferma, quindi consegnò il borsone ad una seconda guardia ed iniziò a rispondere alle domande che gli venivano poste. Si trattava di un questionario abbastanza semplice e lineare, a cui rispose per lo più sinceramente ad eccezione di qualche omissione doverosa: rivelare che erano lì per le risorse naturali del loro mondo non gli sembrava la cosa più educata e corretta da sbandierare ai quattro venti.

    Durante lo svolgimento delle questioni burocratiche, l'occhio gli cadde inevitabilmente verso l'interno delle porte - in cui fra l'altro vennero accolti poco dopo la perquisizione. Non riusciva a comprendere bene quel genere di architettura, non capiva se si trattava di qualcosa di elegante e pregiato o semplicemente di evocativo-religioso.
    Venne comunque richiamato dalla guardia, che gli riconsegnò il borsone e si limitò alle ultime raccomandazioni: evitare di creare guai e di infrangere le regole, o le conseguenze sarebbero state spiacevolissime. Ian non fece fatica a credergli, visto l'arsenale che ogni soldato si portava dietro, quindi annuì con fermezza ed attese che anche Rudolf accedesse a quello che le guardie avevano definito Pronao.

    Sapeva già che sarebbe stato difficilissimo sopravvivere con tutti quei nomi. In compenso però la lingua sembrava non essere un problema, dato che vennero compresi subito.
     
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  15. Dogbert
     
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    Ordine e disciplina. Affronta ogni problema con ordine e disciplina. Gli veniva detto spesso dal Sergente. Faceva parte dei suoi insegnamenti, del suo mantra. Insieme all'importanza ribadita più volte al giorno di mangiare le verdure, prendere le vitamine e fare i compiti.
    (Sì, per lungo tempo è stato assegnato alla classe dei bambini per via dei suoi problemi comportamentali. Il Sergente Hogan sosteneva che era la più adatta a lui)
    Decidendo di applicare quanto insegnatogli comincia a smembrare gli obiettivi della missione in sequenze minori, necessarie al completamento della stessa. Ogni sequenza viene poi ulteriormente divisa, analizzata e inquadrata.
    L'esercizio si rivela utile, almeno in parte. Ciò che sembra così assurdamente complesso diventa, a poco a poco, fattibile.

    Lascia che a parlare sia Ian, seguendolo poi una volta terminati gli ostacoli burocratici. Con le guardie non ha mai avuto un buon rapporto. C'era una buona probabilità che, se avesse risposto lui, sarebbe finito ad arrivare alle mani. Il che potrebbe essere interessante. Decisamente svantaggioso in termini sociale e pur tuttavia interessante. L'unico momento in cui scavalca Ian è nel dichiarare la propria identità. Sente su di sé una strana sensazione che, seguendo, lo porta a dare nome e qualifica falsi. O, forse, vuol solo divertirsi prendendo in giro le guardie, firmando anche i documenti con il suo nome nuovo di pacca.
    Da questo momento in poi ve la vedrete con il Principe Vegeta, signore dei Sayan.
    Principe è il cognome.

     
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