Contest "Locations"

Topic di raccolta.

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    Viaggiatore dei Mondi

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    Questo è il topic di raccolta del Contest - Locations.
    Qui di seguito ognuno posti in un singolo intervento la propria creazione.
    Grazie e buon divertimento.

     
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    Gemîwane



    Geografia.

    Gemîwane si tratta del nome con cui è conosciuta l'enorme flotta di navi apparsa all'improvviso nel bel mezzo dei Mari Occidentali. Composta da centosette imbarcazioni a vela di varia grandezza, è correntemente stanziata nelle acque poche leghe a nord di dove una volta sorgeva l'isola di Berjaska; tuttavia, durante i mesi freddi, Gemîwane leverà le ancore per spostarsi verso acque più calde e pescose.
    Gli abitanti, tutti umani e stimati essere all'incirca quattromila, riescono a muoversi fra le navi grazie ad un fitto sistema di pontili mobili che connettono queste ultime, che vengono ritirati solamente per gli spostamenti e in caso di tempesta.
    Ogni veliero è grande abbastanza da ospitare le abitazioni di più famiglie, o i laboratori dove vengono svolte la maggior parte delle attività lavorative, e per le loro dimensioni tendono a risentire poco dei moti del mare. Hanno tutti una forma simile a quella di una mezzaluna, inarcandosi verso l'alto sia alla prua, spesso decorata da polene raffiguranti spiriti protettori, che a poppa. Ciascuno di essi è stato costruito con un legno estremamente robusto ed impervio agli effetti del tempo e delle intemperie; l'albero da cui è ricavato è tutt'ora sconosciuto su Endlos.


    Clima.

    Generalmente temperato e umido, ma gli spostamenti stagionali rendono difficile definire un clima proprio di Gemîwane. Si osservano di solito stagioni calde lunghe e afose, mentre durante quelle fredde la flotta si trasferisce in acque più miti, caratterizzata da inverni corti e piovosi.
    Grazie sempre a questi movimenti periodici, non si registrano grandi escursioni termiche annue: la temperatura media si aggira infatti fra i quindici e i trenta gradi centigradi tutto l'anno.


    Economia.

    Non essendoci terreni da coltivare, va da sé che l'agricoltura non ricopre un ruolo di rilievo. Ad avere un'importanza assai maggiore è invece la pesca, attività tramite la quale viene soddisfatto il fabbisogno alimentare dell'intera flotta, nonché il motivo dietro i periodici spostamenti di quest'ultima. Sono presenti inoltre risorse minerarie sul fondale marino, ma l'estrazione è difficile e dispendiosa in termini di risorse lavorative.
    Sulle navi-laboratorio fiorisce invece un rispettabile settore secondario e terziario: sebbene una buona fetta della produzione sia destinata sempre al consumo interno, esiste cionondimeno una parte di quest'ultima destinata all'esportazione: una volta acquisite le materie prime, infatti, queste vengono trasformate in prodotti finiti quali attrezzature per la navigazione di altissima qualità, e prodotti di oreficeria tradizionale. Altro prodotto frequentemente venduto è infine l'acqua dolce, ottenuta grazie a impianti magici di depurazione, preziosissima durante i viaggi in mare.
    A prosperare davvero, però, sono i servizi: Gemîwane è infatti nota per ospitare alcuni dei migliori ingegneri navali di tutto il semipiano; grazie alla posizione della città-flotta, sono inoltre molto richiesti medici e guaritori per curare i marinai ammalatisi lontano dai porti.
    Grazie ai proventi delle proprie attività, la flotta è in grado di acquistare a sua volta derrate alimentari, nonché prodotti finiti e altri servizi a cui non è in grado di provvedere da sé.


    Governo.

    Gerontocrazia di stampo matriarcale. A decidere delle sorti di Gemîwane è infatti un'assemblea delle trentasei donne scelte fra le capofamiglia più anziane, che si riunisce mensilmente a bordo della Dayika Mezin, ufficialmente la nave ammiraglia, nonché quella più grande e imponente dell'intera flotta. È inoltre l'unica ad avere, di fatto, un nome.
    Ad ogni famiglia in questo modo esclusa dal consiglio è permesso comunque scegliere un rappresentante o una rappresentante a presenziare ai consigli mensili. Costoro non detengono alcun potere decisionale, fungendo invece da organo consultivo.


    Difesa.

    A formare la prima linea di difesa della flotta è una piccola, ma altamente specializzata milizia di maghi. Questi vengono coscritti in tenera età ogni generazione, addestrati e poi selezionati fra i giovani che hanno dimostrato maggiore talento; rimane tuttavia la possibilità che coloro che sono stati precedentemente “scartati” vengano comunque chiamati alle armi in casi di necessità.
    Solitamente, però, le uniche minacce all'incolumità di Gemîwane sono le creature degli abissi più grandi ed aggressive: per tutelarsi, ogni imbarcazione è infusa di un incanto che scoraggia inconsciamente queste bestie ad avvicinarsi.


    Cultura.

    Ogni giovane riceve un'istruzione obbligatoria a partire dai cinque anni di età, che accompagna l'addestramento militare, e dura fino al compimento del quattordicesimo anno di vita. Dopodiché, ogni individuo selezionato per diventare un mago verrà addestrato per ancora due anni -fino alla maggiore età- mentre i rimanenti inizieranno ad imparare un mestiere che li renderà membri utili della società; viene ereditato solitamente il lavoro di uno dei genitori.
    Kîrahî è l'unica divinità di cui si pratichi il culto. Si tratta di una creatura abissale protettrice della flotta, raffigurata come un'orca marina dotata di un paio di pinne dorsali aggiuntive tanto grandi da sembrare ali. Non esiste un'abitazione all'interno della quale non sia presente un altarino ad essa dedicato, e al quale si presentano tradizionalmente delle offerte di cibo.
    Sempre attorno a Kîrahî ruotano i riti legati anche alle tappe della vita di una persona: battesimi, raggiungimento dell'età adulta, matrimoni e funerali. Ad occuparsi delle funzioni religiose sono di solito delle donne, considerate più vicine alla divinità poiché garanti della continuità della tribù. Sarebbe errato, però, considerarle delle sacerdotesse: si tratta infatti sempre di persone dedite alle più disparate attività nella propria vita quotidiana.
    A causa della scarsità di risorse della flotta, le donne tendono a praticare la poliandria, di solito unendosi in matrimonio con più fratelli, i quali si trasferiscono nell'abitazione della sposa. Questo permette sia di limitare la crescita della popolazione, sia di aumentare la possibilità che i figli (cresciuti da ogni padre-zio) sopravvivano fino all'età adulta. Per la stessa ragione, i flussi migratori vengono attivamente limitati al minimo.


    Background.

    Gemîwane è apparsa sul semipiano di Endlos qualche mese dopo la cancellazione di Undarm e Berjaska, le ceneri sollevate dall'eruzione del vulcano oramai in gran parte dissipate. Gli astronomi sono già al lavoro per rivelare i segreti del loro nuovo cielo, preparandosi alla prossima migrazione in acque aliene.
    Si dice che questa flotta abbia solcato i mari del proprio mondo d'origine per millenni, senza mai approdare in porto alcuno, e senza che nessuno abitanti avesse mai posato piede sulla terraferma. Ad appoggiare almeno in parte questa teoria è il fatto che nessun anziano ricorda di aver mai lasciato la flotta, o che quest'ultima abbia mai attraccato in punti che non fossero in mare aperto.

    A spiegare questo inusuale stile di vita sarebbe un'antica leggenda. Si narra infatti che il popolo di Gemîwane vivesse infatti sulla terraferma, in una città portuale conosciuta allora come Lêv, governata dall'amato re Babkalik, sovrano tanto saggio e misericordioso in tempo di pace quanto pragmatico e astuto in tempo di guerra, sotto il quale la civiltà di Lêv aveva raggiunto un periodo di estrema prosperità e splendore.
    Babkalik aveva attirato l'attenzione della dea della terra Zevî, che tanto ne ammirava le qualità da scoprirsi un giorno perdutamente innamorata di lui. Così, Zevî decise di apparire in sogno al sovrano, dichiarando che si sarebbe presto manifestata a lui in forma umana, e che, se egli l'avesse accettata, avrebbe ricevuto da lei un erede la cui natura era allo stesso tempo umana e divina.
    Il giorno successivo apparve a palazzo una fanciulla bellissima, una sacerdotessa della dea Zevî. Si trattava invero della stessa divinità, la quale aveva preso possesso del corpo della devota, e che, come annunciato, si era presentata a lui come una donna in carne ed ossa. Qualche tempo dopo, dalla loro unione nacque il semidio Leheng. Gli anni passarono, e l'erede al trono crebbe grande e forte nel fisico, la mente acuta e l'animo gentile.
    Quando Babkalik era oramai giunto al tramonto della sua vita, scoppiò una guerra con una città-stato vicina. Nonostante le numerose prodezze del figlio sul campo di battaglia, la città di Lêv sembrava per la prima volta avere la peggio. Anziché continuare una guerra che rischiava di rivelarsi sanguinosa e distruttiva per il suo popolo, Babkalik decise invece di proporre un armistizio ai rivali. Questi dichiararono che sarebbero stati disposti ad accettare, ma solo in cambio della vita di Leheng.
    Babkalik, nonostante le insistenti proteste della consorte, decise di accettare. Offrì così all'ignaro Leheng del cibo avvelenato. Zevî, distrutta dal dolore, decise di maledire Babkalik e tutta la sua gente: per l'eternità a venire, nessuno di loro, né i loro discendenti, avrebbero mai più avuto il diritto di camminare sulla terraferma, al contatto con la quale si sarebbero trasformati in rena.
    Kîrahî, androgina divinità degli oceani e del vento, mossa a compassione, riuscì prima a convincere Zevî a dare alla gente di Lêv almeno un giorno di tempo per prepararsi a lasciare la città per il mare, e donò a questi ultimi una flotta di centosette navi incantate su cui vivere. A patto, però, che si fossero impegnati a renderle omaggio fino alla fine dei loro giorni.

    Edited by Kuma. - 28/1/2019, 01:08
     
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    T · E · K · E · L · I
    THE FORGOTTEN GODDESS


    "Tekeli, Tekeli!"
    Pare siano state queste le ultime parole del mio defunto amico,
    pronunciate in punto di morte. Le definirono oscure ed insensate,
    nient'altro che il delirio di un moribondo. Nessuno osava
    immaginare che Tekeli esistesse, e che anzi fosse un'entità viva.


    - M. Valdemar, appunti sulla morte di A.G.P.


    Se - come ha scritto qualcuno - esistono luoghi che non esistono, è altrettanto vero che esistono luoghi che si credeva non esistessero più. Quella delle cosidette "isole fantasma" è una tematica che arte e letteratura hanno sviscerato fin quasi ad esaurirne il potenziale narrativo, passando dagli espedienti più comuni - come l'isola in grado di inabissarsi - a quelli più curiosi - città galleggianti, isole in grado di spostarsi nell'oceano, sottomarini di dimensioni spropositate. Per nostra fortuna, tuttavia, il Maelstrom trova sempre un modo per stupirci; una folata di vento, il passaggio di un'onda sulla battigia. Una riscrittura non è che questo: cancellare un vecchio messaggio per sostituirlo con uno nuovo, abbandonandolo alle onde. E proprio da qui - da una riscrittura - inizia la nostra storia.

    Background
    Se sfogliassimo il 'Pantheon Pinakes, ovvero l'Indice delle Divinità Ignote e Perdute' di A.G.P., alla voce TEKELI troveremmo solo questa vaghissima definizione: "antica divinità degli abissi; 'colei che giace' in lingua Shardana".
    Gli Shardana sono una popolazione misteriosa, di cui si è quasi perduto il ricordo; vengono citate da alcune cronache ritenute coeve all'instaurazione del dominio delle macchine nel Presidio Ovest, indicati come facenti parte di una alleanza di "popoli del mare"; la lezione è tuttavia controversa, perché come fatto notare dai membri del Magisterium di Laputa, la parola 'Nashàra', nell'antica lingua dell'ovest, indicava genericamente la gente che veniva dal mare ma anche i naufraghi. Non mancano dunque i sostenitori della teoria che vuole gli Shardana come una popolazione che arrivò su Endlos in seguito ad una riscrittura massiccia. Di certo c'è che per lungo tempo essi popolarono una piccola fascia costiera del Presidio Ovest, distinguendosi come un popolo pacifico e dall'enorme cultura, estremamente dedito alla scienza e al progresso tecnologico. Il fato volle, tuttavia, che l'epopea di questo popolo non terminasse tanto in fretta; un fenomeno di riscrittura di entità massiccia privò gli Shardana delle loro città, decimando la popolazione. I sopravvissuti chiesero aiuto a Klemvor, nella speranza di ottenere clemenza ed un aiuto per colonizzare le terre riscritte, o in alternativa per trovare un nuovo luogo in cui stabilirsi; questa iniziativa, tuttavia, non riscosse molta fortuna. Fu in quel momento della storia Shardana che dalle acque del Presidio Ovest emerse un'isola: un piccolo paradiso verde, incontaminato, che distava assai poco dalla costa. Prima di stabilirsi sull'isola, gli Shardana effettuarono diverse piccole spedizioni di ricognizioni, timorosi che l'isola potesse inabissarsi da un momento all'altro; non accadde, e nel giro di pochi mesi, gli Shardana colonizzarono la nuova isola. Solo successivamente, in un arco temporale di cui ci rimangono pochissimi e frammentari documenti, gli Shardana si resero conto di aver scelto come patria e costruito le proprie dimore non su una qualsiasi isola dalla forma curiosamente tondeggiante e assolutamente infertile, ma sul carapace di una gigantesca e millenaria testuggine. La chiamarono Tekelì, colei che giace sulle acque, venerandola come una divinità antica e potentissima. Che Tekeli fosse una vera e propria divinità o semplicemente uno scherzo del Maelstrom non è dato saperlo; c'è chi ha teorizzato che si trattasse di un'altra vittima della medesima riscrittura che aveva privato gli Shardana dei propri villaggi.
    Quale che fosse la verità, essi continuarono a vivere e proliferare sull'isola. Fino al giorno della catastrofe.
    Non è dato conoscere il perché, né precisamente il quando. Da un giorno all'altro, l'isola semplicemente scomparve e del popolo che l'abitava non rimase più alcuna traccia. Di questa tragedia, tanto dolorosa quanto comune sul semipiano, rapidamente si perse la memoria; tutti archiviarono il caso come un ennesimo fenomeno di riscrittura ed il nome di Tekelì e degli Shardana venne obliato dal tempo.
    Si sbagliavano. Tekelì non era stata reclamata dal Maelstrom, si era solo inabissata, raggiungendo i fondali più profondi, dove non arriva la luce del sole, e lì era entrata in un lunghissimo letargo fino a che lo spropositato cataclisma generato dalla distruzione di Berjaska non l'aveva risvegliata. L'antica divinità era tornata ad emergere ed il semipiano aveva infine riscoperto l'esistenza di un popolo perduto e dimenticato: Tekelì viveva ancora - e gli Shardana con lei.

    Geografia
    Tekelì ha una forma quasi perfettamente ovoidale; la porzione di carapace che emerge dalle acque del Golfo di Undarm è misura circa venticinque chilometri in lunghezza e poco meno di venti in larghezza nei punti più ampi. Vedendola dall'alto, non sarebbe difficile riconoscere la forma della testuggine, di cui la testa e le pinne rimangono per lo più sotto il pelo dell'acqua; per questa ragione è stata tempestivamente soprannominata Tortuga dalle popolazioni della terra ferma. La città degli Shardana - il cui nome, per il popolo, coincide con quello della divinità su cui si fonda - occupa ad oggi circa un terzo della superficie emersa. La maggior parte dell'isola è dunque disabitata e selvaggia, pur restando possibile imbattersi in costruzioni e piccoli avamposti Shardana abbandonati, risalenti all'epoca antecedente il letargo di Tekelì.
    La flora è sostanzialmente marina: coralli, alghe e posidonia; similmente, è di natura marina anche la fauna: anemoni di mare e crostacei di varia natura popolano le coste, mentre la parte più interna dell'isola è popolata per lo più da strane creature anfibie. Nel complesso, data l'assenza di alberi e in genere vegetali a fusto alto, l'ecosistema non è adatto ad accogliere migrazioni di animali provenienti da altri presidi, che inevitabilmente finirebbero per diventare l'ultimo anello della catena alimentare.
    La popolazione è esclusivamente Shardana; si tratta di una razza anfibia estremamente longeva - sebbene non sia noto se si tratti di una condizione preesistente o legata agli sconvolgimenti di cui il popolo è stato vittima. I connotati umanoidi sono imbastarditi da occhi simili a quelli dei più comun batraci, il collo presenta delle branchie e la parte inferiore del corpo ricorda quello dei tritoni; gli Shardana sono quasi tutti dei potenti Psion, pertanto non è escluso che abbiano forzato il proprio corpo a mutare rapidamente per adattarsi alle condizioni proibitive della vita sottomarina. E' riconosciuto, comunque, che possano presentarsi in una forma completamente umana, se lo desiderano, mentre è leggenda - non si sa quanto veritiera - che siano capaci di rendere "uno di loro" un qualsiasi straniero che manifesti il desiderio di rimanere sull'isola e che dimostri la giusta fedeltà e devozione a Tekelì.
    Il clima è quello solito dei mari dell'Ovest. Tekelì è una creatura antichissima, la sua concezione del tempo non ha nulla a che vedere con quella dei mortali; il suo letargo - durato secoli - potrebbe essere stato per lei nient'altro che una pennichella. Tende a non spostarsi, mostrando un comportamento molto abitudinario.

    Forme di Governo
    In origine, Tekelì era una città-stato vassalla dei poteri della terra ferma; ad oggi, si può considerare poco più che un pacifico villaggio, in cui si è instaurata fin da subito una forma di governo simile ad una aristocrazia di stampo teocratico. Il governo dell'isola e tutte le decisioni di una qualche importanza sono demandate all'Ayn-Shy'on, l'alto sacerdote del culto di Tekelì. Funge da organo consultivo l'assemblea dei sacerdoti minori, i Myn-Shy'on, in numero di cinque - vestigia dei 'Cinque Distretti' in cui era suddivisa l'isola al tempo della massima espansione Shardana dei territori. La carica di Alto Sacerdote è considerata a vita; egli viene eletto dal popolo scegliendo tra i membri del Collegio dei Myn-Shy'on. Quest'ultima è composta - come si è detto - da cinque membri; la carica di sacerdote minore è anch'essa vitalitis; alla morte di uno dei sacerdoti, è il collegio stesso che si incarica di cooptare un nuovo membro. Sebbene la carica non sia ereditaria, è una consuetudine che ogni componente del collegio venga sostituito, alla sua morte, da un componente della sua stessa famiglia. Questo ha dato vita ad una vera e propria aristocrazia dominata dalle cinque famiglie principali - fra cui è compresa quella dell'Alto Sacerdote.
    Attualmente, riveste la carica di Ayn-Shy'on un individuo il cui nome - Nashor - presente la stessa radice ('Nasz', mare) del termine "Nashara", lasciando aperta l'ipotesi che si tratti di una creatura non originaria di Tekelì.

    Cultura e Architettura
    All'interno di una Teocrazia, non può non avere un ruolo centrale la religione, che nel caso degli Shardana è di stampo monoteistico: Tekelì è l'unica divinità riconosciuta; tuttavia, gli Shardana sono generalmente tolleranti nei confronti di atei e esponenti di altri credo, purché questi non siano shardana di nascita. La punizione per gli Shardana che rinnegano Tekelì è l'esilio, mentre agli stranieri è richiesto un semplice atto di simbolica devozione - bere una tazza di acqua marina - come ringraziamento per l'ospitalità (gli Shardana, come ogni popolo pacifico, sono generalmente molto ospitali).
    La cultura è curata dai membri del Collegio, che si occupano di insegnare ai bambini dai sette ai trentacinque anni di età; raggiunta questa soglia, ogni Shardan viene considerato maggiorenne a tutti gli effetti. Le famiglie, comunque, tendono a non disperdersi e dunque non è raro - come nella vecchia tradizione contadina della terraferma - veder convivere diverse generazioni della medesima famiglia in una sola abitazione.
    Tutti gli Shardana - sebbene con diversi gradi di talento - sono degli Psion e come tali vengono educati all'utilizzo di tale arte, seppure questo avvenga principalmente per tradizione e con spirito difensivistico. Non esiste un esercito su Tekelì, né una qualsiasi guardia armata: l'autorità dei sacerdoti si fonda sulla stessa divinità su cui poggiano i piedi gli abitanti.
    Sebbene sull'isola sia possibile imbattersi in antiche costruzioni - ormai derelitte - di forma allungata e apparantemente molto avanzate tecnologicamente per i tempi in cui sono state costruite, ad oggi gli Shardana sembrano aver abbandonato qualsiasi velleità da tecnocrati. Tuttavia, non sarebbe difficile notare una certa somiglianza tra ciò che rimane delle tecnologie perdute degli Shardana e le prime macchine di Klemvor. La vita sottomarina, perpetuata per molte generazioni, ha fatto perdere il senso del progresso - ostacolandolo sia con l'isolazionismo forzato sia con le difficoltà logistiche dello sviluppo tecnologico sottomarino. Si conservano tuttavia come reliquie le antiche vestigia di un passato glorioso.
    Ad oggi, gli Shardana abitano in costruzioni in pietra di forma tronco-conica, alte circa dieci-dodici metri nei casi più imponenti.
    L'isolazionismo di cui sopra ha reso ininfluente l'utilizzo della lingua comune su Tekelì; l'unica lingua parlata correntemente è lo Shardano, seppure - fra gli adulti - è possibile incontrare chi ricordi ancora come utilizzare la lingua comune, cosa più probabile tra i membri delle Grandi Famiglie.

    Economia
    La natura e il lungo periodo letargico di Tekelì hanno reso l'isola del tutto inadatta all'agricoltura. La pesca è praticata, sebbene non con l'assiduità che ci si potrebbe aspettare: la dieta degli Shardana è infatti composta principalmente di alghe e plancton; il pesce viene per lo più sacrificato alla divinità e consumato nei giorni festivi. Nell'antichità gli Shardana avevano fama di essere degli ottimi marinai e commercianti - a volte, addirittura pirati e razziatori. L'inabissamento ha messo fine a tutto questo, costringendo l'isola all'autarchia e annullando ogni forma di contatto con l'esterno. All'interno di Tekelì non esiste alcuna moneta; per lo più si potrebbe dire che è in vigore il baratto, ma in generale ogni macro-nucleo familiare è del tutto autosufficiente. A causa del tempo trascorso nelle profondità dell'oceano, gli Shardana sono ormai dei navigatori appena mediocri, rivelandosi invece dei provetti nuotatori e sommozzatori senza pari: è infatti considerato una sorta di 'sport nazionale' il recupero di 'tesori' divorati dagli abissi, che spesso adornano le abitazioni dei più importanti rappresentanti della popolazione. La mancanza di contatto con l'esterno ha tuttavia impedito che questa passione per il recupero dei tesori portasse ad una sorta di plutocrazia: la scarsa valenza dell'oro e della moneta - in mancanza di cose da comprare - ha reso i tesori nient'altro che orpelli che inorgogliscono più per la capacità dimostrata nel recuperarli che per il loro effettivo valore, cosa che - nel tempo - ha minato la cognizione stessa del termine 'radjant' (tesoro, appunto).

    Mi riservo di aggiungere in un secondo momento - entro e non oltre il 10 febbraio, chiaramente - una o due immagini a corredo del post; sfortunatamente, al momento non ne ho trovate di adatte, pur avendo speso alcune ore nella ricerca.
     
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    Ryūgū-jō

    Il Palazzo del Drago


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    La leggenda di Urashima Tarō

    Tanto tempo fa, su un Mondo lontano in un Paese sconosciuto ai più, viveva un pescatore di nome Urashima Tarō. Egli era giovane, pieno di bontà e amore per il mare, che giorno dopo giorno gli dava il sostentamento necessario a vivere la sua semplice vita. Non aveva mai osato chiedere nulla di più di ciò che gli era strettamente necessario, non volendo turbare gli equilibri di quello specchio azzurro che gli era tanto caro.

    Ogni giorno Urashima Tarō si alzava al sorgere del sole, camminava fino agli scogli del golfo vicino al suo villaggio e immergeva la sua lenza nelle docili acque marine. E lì stava, in attesa che qualche pesce abboccasse al suo amo. Dopo che il sole aveva compiuto il suo lungo percorso nella volta celeste e le prime stelle facevano capolino dalle tenebre, si alzava, si spolverava i vestiti, recuperava le sue cose e tornava a casa con quanto era riuscito a pescare.

    Una mattina, però, andando agli scogli come faceva tutti i giorni, vide dei ragazzini tirare calci a una tartaruga marina. Gridando e muovendo convulsamente le braccia nel tentativo di spaventarli, corso loro incontro per difendere l’animale indifeso. Per fortuna, bastò quello a far scappare quei teppistelli. Urashima si volse verso la tartaruga, notando che era molto più grande di quanto avesse pensato vedendola dalla distanza.
    “Ti ringrazio” gli disse.
    Con un grido, Urashima cadde a terra. La tartaruga, con un enorme sorriso, lo tranquillizzò.
    “Voglio ricompensarti per il tuo gesto.”

    Ancora intontito dalla scoperta di una tartaruga gigante parlante, Urashima si convinse a salire sul grosso carapace dell’animale. Appiattito sulla sua sommità, si strinse meglio che potè, serrando gli occhi per paura di quello che avrebbe potuto vedere in quel mondo sommerso pieno di misteri e orrori profondi.
    Quando riemerse, Urashima si ritrovò dentro una grossa caverna sottomarina. La tartaruga imboccava cunicoli per metà sommersi senza mai perdere l’orientamento.

    Non seppe mai quanto tempo avevano navigato dentro l’enorme grotta. Ma non scordò mai la prima volta che i suoi occhi si posarono sul Ryūgū-jō, il Palazzo del Drago, e su Otohime, la bellissima regina che vi abitava. I due si innamorarono nell’istante in cui i loro sguardi si incrociarono e vissero insieme nel Palazzo.
    Tuttavia, Urashima continuava a sentire nostalgia di casa. Dopo tre anni passati con la bella Otohime, il giovane chiese il permesso di tornare al suo amato villaggio, da cui si era separato ormai per troppo tempo. Seppur con riluttanza, la regina gli concesse di fare ritorno e gli donò una scatola tempestata di preziosi, con la promessa di non aprirla mai, per nessuna ragione.

    Tornato sulla terra ferma, Urashima corse al suo villaggio, pensando allo scalpore che il suo ritorno avrebbe provocato dopo la sua lunga assenza. Al posto delle case di paglia e legno che aveva lasciato, però, trovò strutture di mattoni e vetro, malta e cemento, camini e ciminiere.
    Era vero che nel Palazzo erano passati solo tre anni, ma al di fuori ne erano trascorsi trecento. Disperato, Urashima camminò senza una meta fino a giungere sul luogo dove aveva salvato la tartaruga. Maledicendo il mare, pensò di vendicarsi infrangendo l’unica promessa che aveva fatto a Otohime prima di partire, la quale doveva sapere che nel suo mondo erano passati tre secoli e nonostante tutto lo aveva lasciato tornare ignaro di ciò che avrebbe trovato. Prese la scatola e con rabbia ne aprì il coperchio. Subito venne avvolto da una nube bianca e il suo corpo invecchiò di colpo. Il regalo della bella regina, infatti, altro non era che la sua età reale. Urashima ebbe solo un attimo per osservare un’ultima volta il mare con sguardo spento, velato di lacrime al pensiero di tutto ciò che aveva perso: l’amore per il villaggio, l’amore per Otohime, ma, cosa più importante, l’amore per il mare.


    Leggenda o Realtà?

    La leggenda di Urashima Tarō spinse centinaia e centinaia di uomini alla ricerca del Ryūgū-jō. Pirati, avventurieri, archeologi armati di tute da sommozzatori e palombari si sono avvicendati nel tempo lungo le coste dell’odierno Giappone, sul pianeta Terra, per individuare il punto dove si diceva vivesse Urashima Tarō, il pescatore che visitò il Palazzo del Drago, e da lì risalire alle coordinate esatte di questo misterioso luogo.

    Secondo la leggenda, infatti, al centro di un lungo labirinto di roccia si troverebbe un enorme castello d’oro. Incastonati nel portone, al centro di due grandi palpebre d’oro, ci sarebbero due grossi rubini grandi quanto un polmone di un uomo adulto, a formare i pomelli d’ingresso. Una lingua formata da un unico smeraldo lavorato fuoriuscirebbe dalla bocca spalancata e irta di denti aguzzi della grossa testa di drago d’oro posta sulla doppia porta di pietra. Dentro, infinite ricchezze di vario tipo. Non solo pietre preziose, ma anche le più belle sete che si siano mai viste, arazzi finemente lavorati, mosaici di coralli più belli della barriera corallina stessa e la donna più bella su cui sguardo umano abbia mai potuto posarsi.

    Nessuno, tuttavia, ha mai messo piede in questo Palazzo o è anche solo andato vicino a scoprire la sua localizzazione. Difatti, il Ryūgū-jō non è mai stato sulla Terra e il passaggio che condusse Urashima Tarō su Endlos si richiuse tempo dopo.


    Il Ryūgū-jō

    Dopo gli eventi che hanno portato alla distruzione di Berjaska, alcune isole sono emerse dal mare dell’Ovest. Tra queste, alcune hanno assunto particolari colori per via della natura del territorio. A qualche chilometro da queste, vi è una zona con dei singoli iceberg di roccia affioranti dal mare dell’Ovest. Sette spuntoni di grezza roccia alti da poche centimetri a due-tre metri. Ma la vera isola si trova sotto il livello del mare.

    Proprio come un'iceberg, sotto questi spuntoni si trova un’enorme montagna di roccia la cui base tocca il fondale marino. In corrispondenza di alcune strane pietre blu, si trova un’apertura che conduce a una grotta, anch’essa formata da pietre dal colore azzurrognolo-bluastro, solo parzialmente allagata. Da questo ingresso è possibile accedere ad un labirinto di cunicoli di varie dimensioni che si diramano per 20 km2.
    La corrente al suo interno può essere piuttosto forte o completamente piatta e da nessuna parte spira anche solo un alito di vento o filtra alcuna luce. Questo rende la navigazione problematica e il nuoto difficoltoso.

    Superato il labirinto, si apre una grossa caverna di pietra azzurra con un solo ingresso percorribile. Dal soffitto, che arriva fino al livello del mare ed emerge in alcuni spuntoni di roccia, filtra la luce del cielo di Endlos. Grazie alle rocce che ricoprono la parete interna, ben levigate dall’acqua, la luce viene riflessa ed amplificata e l’illuminazione è buona. Due grosse cascate cadono dalla parete di fondo della caverna.

    Al centro dei due flussi d’acqua e del cono di luce che cala dall’alto, vi è il Ryūgū-jō. L’enorme Palazzo del Drago si sviluppa principalmente in altezza, come una grossa città-torre. La sua base, tuttavia, è di 10 km2. All'interno, il castello è diviso in tre grossi anelli. Il primo, quello più basso, ospita le abitazioni del popolo che fungono anche da bottega per gli artigiani. Davanti all'ingresso vi è un piccolo golfo dove si possono ormeggiare le imbarcazioni, non più grandi di piccole barche da pesca. Al secondo anello si trovano la caserma e le sale d'armi, nonché gli alloggi dei militari, considerati un ceto sociale privilegiato rispetto al popolo. Il terzo anello, infine, è riservato al nobile e alla sua famiglia.
     
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    Geografia:

    Schermata_2019-01-07_alle_16

    Quando iniziò a spargersi la voce fra i pochi coraggiosi pescatori che si erano spinti in quelle acque, nessuno ci voleva credere. Là dove poco tempo prima si ergeva il vulcano di Berjaska, spazzato poi via da una potente esplosione magica, qualcosa era nato dalle ceneri. Più maestoso e vivo di quanto non lo fosse mai stato prima d’allora.
    Un enorme atollo di terra era spuntato dal mare come uscito direttamente da uno dei racconti del presidio Ovest. Comparso dal giorno alla notte non ha dato nemmeno il tempo alle persone di rendersi conto che qualcosa era cresciuto più veloce di una pianta di bambù e, proprio come tale pianta, anche l’isola era incredibilmente verde e ricca di vita.
    Dalla forma circolare, con un diametro di molti chilometri, questa terra ha attorno una serie di alti picchi simili a quelli della vecchia Sequerus. Alti all’incirca trecento metri, circolando l’isola come un’imponente muraglia. Dato che sono picchi a livello del mare, le loro cime sembrano ancora più alte.
    Queste grandi sommità, colorate dagli alberi che vi sono cresciuti sopra, offrono un gran numero di passaggi a chi ha l’ardire di fermarsi alla loro base con una piccola imbarcazione. All’interno di questo muro protettivo vi si trova la vera e propria Ygvidra.
    Una landa piatta vari chilometri e dal forte colore verde, infatti sia campi, sia piccoli boschi e strani minerali di proporzioni straordinarie, hanno questo semplice colore in comune. Tanto semplice quanto meravigliosamente intenso se lo si collega alla distruzione di Berjaska.
    L’unica cosa che però rompe la monotonia di questa pianura, è uno strano, ma fascinoso, altopiano che attira l’attenzione di chi guarda il paesaggio. Alto poco più di cento metri, ospita sulla sua cima un villaggio con una popolazione assai attiva, oltre che a un grande tempio circolando sempre da dei ciliegi. Alla base dell’altura vi si trovano invece piccole fattorie e appezzamenti di terra coltivati dagli abitanti.
    Il clima resta mite tutto l’anno e anche i ciliegi, in maniera inspiegabile, sono sempre in fiore regalando all’isola una nota di colore rosa.

    Zone di interesse:

    giappone_1

    Palazzo Imperiale: Enorme palazzo visibile da tutta l’isola costruito sull’altopiano di Ygvidra. Oltre ad essere estremamente bianco e ampio, sorge fra le tante piante di ciliegio sempre in fiore che adornano l’altopiano. Al suo interno vi sono molte stanze, divise in piani. Al primo e secondo sarà infatti possibile accedere a quello che è un vero e proprio museo dedicato alla famiglia Teeka, persone considerate sacre grazie al loro buon cuore e alla loro generosità, che sono state in grado di unire molte razze in quella città. Ogni abitante nativo dell’isola gli conosce e gli rispetta anche se hanno dovuto abbandonare Ygvidra per un motivo a oggi sconosciuto. All’ultimo piano invece si trova il saggio samurai Saku, che dispensa consigli e perle di saggezza a chi va per chiedergli consulenza.

    Strada Grande: Perenne palcoscenico del comico Itnoc e dei suoi strani vestiti cerimoniali rossi. La Strada Grande è considerata il fulcro della città, dato che molte case e negozi sono state costruite vicino ad essa. Come un perenne mercato, questa ampia strada bianca raccoglie ogni giorno quasi tutti l’abitanti dell’isola. Goatclan, umani, Kami e spiriti si possono trovare facilmente in questa zona, dove dimostrano la loro armonia fra di loro e con chi viene dall’esterno, arrivando a trattare tutti come dei compaesani. Ai lati della strada, oltre ai numerosi banchi che vendono ogni genere di cosa, vi sono grandi statue di giada che raffigurano ogni genere di animale. Queste effigi attirano molti spiriti, che possono essere visti come fuochi fatui o piccoli oggetti animati, oltre che a fungere da illuminazione durante la notte. Inoltre è possibile trovare dei piccoli templi, costruiti attorno alla strada, dove vi è la possibilità di pregare il Dio dell’isola: Il Dormiente. Una strana divinità che dormendo garantisce l’armonia a tutti gli abitanti dell’isola.

    Cave di Giada: Un conglomerato di rocce che nascono dal terreno particolarmente grandi, che arrivano anche a misurare cento metri, è stato scelto come cava principale delle attività del popolo di Ygvidra. Qui, onesti lavoratori, operano al fine di garantire l’estrazione della Giada, pietra dalle molte proprietà e impieghi. Non è raro infatti trovare, costruite nei dintorni, le case delle varie famiglie che hanno votato il loro lavoro alla miniera. Fra di esse ci sono anche dei veri e propri lavoratori di questa gemma, dato che viene impiegata per molte cose a causa della sua speciale proprietà magica, che vengono usati per costruire oggetti di tutti i giorni, per l’illuminazione e monili religiosi. Inoltre fra questi artigiani vi è il famoso fabbro conosciuto come Iddob. Per quanto potrebbe sembrare un posto desolato, vi sono molte persone che vi vivono, nonostante si trovi a meno di trenta minuti di carro dal Palazzo imperiale.

    Personaggi di Spicco:

    Saku, il Padrone di sé stesso: Entità conosciuta in tutta l’isola, seconda a fama solo alla famiglia Teeka. Egli giace seduto nell’ultimo piano del Palazzo Imperiale, in perenne meditazione per trovare la pace interiore. Saggio e composto, gli piace aiutare i suoi concittadini rispondendo alle loro domande e dubbi con risposte ottenute dalla sua enorme conoscenza. Sembra essere l’unico che conosce qualcosa di più riguardo Il Dormiente. Vestito come la classica armatura da Samurai, troneggia nella stanza con i suoi due metri d'altezza. Nonostante nessuno lo abbia mai visto combattere, tiene legata sempre sulla schiena una grossa spada di Giada. Si dice che la sua forza sia pari alla sua enorme saggezza.

    Conte Itnoc: Personaggio assai particolare e colorato grazie ai suoi lunghi vestiti cerimoniali. Adora girare per la città urlando a gran voce il suo nome, oltre che a raccontare mille storie e aiutare chi più ne ha bisogno. Personaggio talmente particolare che i più pensano sia uscito direttamente da un libro. Il suo mandolino di colore rosa che di tanto in tanto suona, sembra solo confermare questa teoria. Affabile e dotato di un’incredibile parlantina, riesce ad attirare chiunque passi per la Strada Grande. Conosce più di mille storie e ne ha vissute altrettante di persona. Non è chiaro se sia in possesso di qualche altra abilità però, stando ai suoi racconti, ha la forza di dieci dragoni. Probabilmente è più facile pensare che non sia effettivamente così.

    Fabbro Iddob: Assai loquace per essere un fabbro di un piccolo paese. Indossa vestiti leggeri in ogni occasione, anche perché l'isola gode di un ottimo clima. Umano slanciato e dal fisico, stranamente, asciutto, se messo in relazione con la sua enorme forza fisica, difatti è l’unico che può vantare l’abilità di lavorare la Giada per creare delle vere e proprie armi, quando tutti gli altri la lavorano per creare degli utensili. In tanti ammettono che sia stato lui a creare la leggendaria spada di Saku: la Drago Verde. Inoltre è conosciuto anche per detenere il record di minerali estratti in un solo giorno quando, non vedendo arrivare nemmeno un sasso nella sua fucina, uscì armato di piccone e raccolse più di sei tonnellate, dimostrando a tutti i minatori quanto forte effettivamente potesse essere.

    BackGround:

    Per quanto gli abitanti della stessa isola lo ignorino, o semplicemente facciano finta che non sia in quel modo, Ygvidra non è sempre esistita in quelle acque, dato che prima di lei vi era Berjaska.
    Ma allora, di preciso, da dove arriva questa isola? Forse questo racconto, uno dei tanti non raccontati su Endlos, vi potrà chiarire le idee.

    Quando i Teeka arrivarono sull’isola non trovarono esattamente ciò che gli era stato promesso. Anzi, non trovarono proprio nulla, se non una piccola popolazione locale che le accolse a braccia e cuore aperto. Fu grazie a quella collaborazione che la famiglia riuscì a creare la propria fortuna e a costruire la villa sicura dove iniziarono ad abitare per tutto il tempo e per tutti i giorni a venire.
    Questa era almeno la storia che conosceva il loro primogenito: Ygvidra.
    Era sempre stato un ragazzo pieno di energie, che usava per correre nei corridoio, nascondersi nelle stanze e leggere i libri che i suoi genitori avevano portato dal Presidio Ovest.
    Non l’aveva mai visto con i propri occhi ma i libri avevano abbastanza illustrazioni da riempirgli la mente: i picchi di Sequerus, i ciliegi in fiore di Kijani Fahari, l’armonia che vi era fra le persone. Come poteva non innamorarsi di una cosa del genere? Impossibile.
    Adorava leggere e sfogliare quei libri, anche quando avrebbe dovuto allenarsi. Proprio come un dono fatto da qualche divinità superiore, il ragazzo era dotato del potere di creare piccoli oggetti e rendergli reali per mesi, nonostante avesse solo pochi anni.
    Dapprima erano semplici giochi, poi copie dei libri che leggeva, fino ad arrivare a vere e proprie riproduzioni delle illustrazioni. I genitori erano sbalorditi del suo dono e non lo incoraggiarono a coltivare quella dote. Il bambino, dunque, crebbe forte, fiducioso e di sani principi. Inevitabilmente però si domandò cosa ci fosse al di fuori della sua villa.
    I genitori non volevano farlo uscire per paura che qualcuno del Presidio Ovest, magari approdato lì per sfortuna, lo rapisse e lo trascinasse via dalla sua amata Berjaska. Eppure al ragazzo sarebbe andato bene correre anche quel rischio. Di nascosto, quindi, prese un mantello e si fece scivolare nell’oscurità.

    Il ragazzo però si spinse oltre quello che aveva immaginato, si ritrovò quindi nel ben mezzo di un villaggio di Goatclan, esseri a cui i genitori avevano sempre detto di stare alla larga dato che potevano essere mortali persino per uno con i suoi poteri. Spaventato nel vedergli, contorti nella loro forma reale e non di quella delle favole, prese e scappò più veloce che poté finendo quindi a nascondersi in una profonda grotta vicino alla tribù. Essendo che era terribilmente buia, materializzò subito una forte luce sotto forma di candela e fu allora che vide qualcosa di ancora più grottesco. Nascosti nel fondo della grotta, come se nessuno le dovesse vedere, vi erano dei graffiti. Erano assai confusi ma il ragazzo aveva letto qualcosa su come tradurre le pitture rupestri. Riuscì quindi a capire che sull’isola, in origine, vi era una tribù pacifica e allegra, in seguito due persone approdarono sulla spiaggia. Sembravano arrabbiati e tristi.
    La tribù provò ad accogliergli fra di loro ma gli estranei rifiutarono ogni aiuto.
    Nel disegno dopo vi era raffigurata la luna e, sotto di essa, un mostro terribile evocato dai due stranieri. Le sue orbite erano vuote e Ygvidra avrebbe giurato che il solo aspetto, fosse la cosa più tremenda che avesse visto, uguale ma diverso a quello dei Goatclan. I graffiti poi continuarono con un vero e proprio massacro, dato che i due esterni e il demone, altro non lo si poteva definire, uccisero uno per uno tutti gli abitanti dell’isola. Al termine del massacro il demone toccò la donna e poi sparì.
    Scosso e profondamente inquietato, il ragazzo aveva passato tutta la notte a leggere quei graffiti lunghi e complicati, decise di abbandonare quella caverna e tornare a casa. Non appena varcò il passaggio che aveva usato per uscire, cercò i genitori. Quando gli trovò il suo sguardo nei loro confronti era drasticamente cambiato, dato che aveva appreso in maniera chiara che i due estranei dei dipinti erano proprio loro due.
    Colti alla sprovvista e con prove tanto lampanti non ci misero molto a confessare.
    I due Teeka quando arrivarono sull’isola si resero conto di essere stati ingannati dagli altri nobili, difatti sul suolo promesso non vi era nulla. Furenti giurarono vendetta nei confronti del presidio Ovest e della sua gente, quando proprio in quel frangente un vecchio gli avvicinò. Non solo l’isola era spoglia di qualsiasi ricchezza ma persino abitata da indigeni.
    I Nobili rifiutarono con arroganza l’aiuto dell’anziano, cosa che gli fece effettivamente arrabbiare ancora di più. Presi da quel sentimento, terribilmente negativo, evocarono un orrendo Oni che aveva aiutato la loro famiglia per generazioni: il Demone Capra.
    Quest’ultimo si manifestò davanti a loro in tutta la sua potenza e gli schernì per come si erano ridotti. I Teeka lo supplicarono di dargli una mano e il mostro accettò, a patto che un rito di sangue venisse eseguito.
    I due pensarono subito agli abitanti del villaggio e con furia cieca mista a odio, sterminarono la tribù di Berjaska. Il tributo era stato pagato e il demone Capra era soddisfatto, così donò al padre l’abilità di imbrigliare l’energia dell’isola per poterla usare come meglio credeva e alla madre il potere di riprendere l’Ovest. Esso sarebbe nato sotto forma di un bambino con una grande abilità, che sarebbe cresciuta pari passo con lui.

    Ygvidra, spiazzato da quella scoperta non ci pensò due volte ad allontanarsi dai genitori, dapprima correndo per i corridoi della villa poi usando nuovamente il passaggio segreto per allontanarsi da loro in maniera definitiva. Passarono molte settimane prima che il ragazzo riuscisse ad assimilare l’idea di quello che i suoi genitori avevano fatto in passato per fargli ottenere quel potere, proprio grazie a quest’ultimo riuscì a sopravvivere nella vegetazione di Berjaska, creando quando ne aveva bisogno quello che di più necessitava. Non aveva ancora accettato completamente l’idea quando riuscì a percepire qualcosa vibrare nell’aria.
    Qualcosa di estremamente potente e tremendo stava per colpire la sua isola, la quale sarebbe stata sicuramente stata spazzata via. Preso allora dal panico provò a correre verso la villa, ma quando si rese conto che era troppo tardi decise di usare il suo potere per rendersi intangibile, come fosse diventato completamente d’aria.

    Tornò normale solo dopo alcune settimane, sicuro del fatto che tutto fosse passato.
    Quello che trovò quando tornò furono solo pochi scogli e mare aperto a perdita d’occhio. Non riusciva a credere a tutto quello che stava vedendo. Ogni singola cosa che aveva creduto durasse per sempre, non c’era più. Nè la villa e né i suoi genitori.
    Cadde in ginocchio, sconfitto e colmo di tristezza per non essere riuscito a salvare le uniche persone a cui aveva voluto bene in modo genuino.
    Molti giorni e notti passarono attorno a lui, mentre la solitudine lo iniziava a divorare lentamente. Stremato dai giorni passati in incessanti pianti, in cui si vedeva come l’unico colpevole, si addormentò. Solo il sonno riuscì a placare il suo spirito irrequieto e soltanto rimanendo addormentato poteva rivedere chiaramente la faccia dei suoi genitori, della villa, della popolazione dei Goatclan e molto di più.
    Dormendo, infatti, il suo potere si manifestò come se fosse stato il ragazzo stesso ad evocarlo, spinto dal desiderio di ricreare quello che aveva perso. Così l’isola nacque dal nulla, dal sogno del ragazzo che rimane tutt’ora dormiente. L’isola era di una bellezza tale da fare impallidire l’Ovest, ogni cosa era armoniosa e i suoi genitori venerati come divinità benevole.
    Soltanto rimanendo dormiente poteva però vivere in quel sogno e a lui la cosa non dispiacque.
    Lentamente, quindi, si lasciò andare ad un lungo sonno. Fintanto che il ragazzo resta il Dormiente, l’isola vive non solo nei suoi sogni ma anche nella realtà.



    Edited by Blain - 31/1/2019, 21:43
     
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    L'Enclave Eth'ari

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    Non tutti i mondi sono affrancati dalla tirannia degli dei. Nell'immensità degli innumerevoli luoghi di cui è composto l'infinito, esistono mondi di disperazione dove le divinità camminano fra i mortali, si combattono fra loro con ferocia senza curarsi di intere razze cancellate sotto il loro tallone, queste ultime null'altro che marionette con il compito di glorificare l'esistenza dei loro onnipotenti patroni. Gli umani più di tutti temono la morte, maledetti da una vita breve e destinata agli stenti, alla vecchiaia, alla bruttura ed alla sofferenza, poiché dal loro dolore e dagli effimeri momenti delle loro brevi giovinezze i loro padroni traggono maggior sostentamento. Durante l'era degli eroi gli dei creatori dei nani sedevano nelle aule di pietra istruendo i loro figli, donando loro la saggezza ed i segreti dell'acciaio e della pietra così che possano forgiare il loro destino, ad ogni generazione si ergeva un eroe destinato ad abbattere gli dei, ma fallimento dopo fallimento la stirpe delle montagne decise di isolarsi e fuggire agli sguardi del resto del mondo. Le bestie ed i mutanti reietti dedicavano le loro scintille vitali ai più oscuri poteri, perché nutriti di astio e sete di vendetta come infanti dal seno della madre; fin dalla nascita covano odio e rancore per tutte le forme di vita, e le loro atrocità nei confronti delle altre razze sono la risata degli Oscuri. Ma gli elfi erano amati dalla loro dea-madre, colei che li modellò dal cristallo e dai raggi del sole al mattino usò se stessa come modello, dette loro anime immortali capaci di superare gli eoni, volti bellissimi ed occhi che brillavano come la luce delle stelle-guida. Anche quando gli dei stessi scendevano in guerra e danzavano torreggiando sui popoli come titani inarrivabili, scatenando la furia degli elementi e sconquassando interi continenti senza dare tregua alcuna ai mortali, gli elfi ogni volta erano protetti e tratti in salvo dalla loro dea luminosa, che non di rado si abbassava ad offrire se stessa per la salvezza dei suoi figli prediletti.
    Le ere trascorrevano, le guerre erano infinite, presto il mondo stesso non riuscì più a sostenere la furia cieca degli Dei Oscuri, ma lo sdegno degli dei patroni non concedeva loro tregua, la loro collera non poteva arrestarsi nemmeno davanti al sollevarsi delle placche della terra, dalle eruzioni vulcaniche senza sosta, dalla caduta del cielo stesso e dall'oscurarsi del sole, diventato un freddo blocco di ghiaccio senza vita. Infine, mentre gli dei patroni gridavano di dolore e morte mentre gli dei oscuri ridevano un'ultima volta, finalmente il mondo cessò di essere. Disperata, la dea di luce madre degli elfi si recò ai palazzi delle divinità supreme del tempo e del destino, dei sogni, della morte e del silenzio. In lacrime scongiurò per i suoi figli perduti offrendo tutto ciò che le era rimasto per la salvezza delle loro anime immortali, ma essi videro che di lei era rimasto ben poco. Nel corso dei millenni aveva perduto irrimediabilmente la sua bellezza, sfregiata e stuprata mille volte più di quanto qualsiasi mortale potesse sopportare. Ella era cieca, entrambi gli occhi cavati con la forza, aveva il volto sfregiato ed i capelli bruciati, il ventre reso arido e sterile perché graffiato e massacrato più volte, entrambe le gambe ridotte a rivoli di sangue e pus, le mani un tempo bianche e candide ridotte ad un groviglio di tagli e solchi. Impietosite, le divinità supreme le restituirono la sua stirpe di luce, ma involontariamente riportarono così in vita uno degli Dei Oscuri. L'Ingannatore aveva legato la sua essenza agli elfi prima di spirare, corrompendoli con lusinghe ed immagini di piaceri oltre ogni misura. Senza che la dea madre potesse fare alcunché, egli li divorò uno ad uno, per poi abbandonarsi ridendo sugli scogli alla deriva di ciò che restava del Mondo che Fu. Disgustati da tanta crudeltà, gli dei supremi punirono l'Ingannatore e crearono per lui un abisso, poi lo inchiodarono ad una roccia e ne aprirono il ventre per estrarne le anime dilaniate e masticate degli elfi, dopodiché lo gettarono nel baratro da cui non sarebbe mai più riemerso.

    Tentarono di restituire gli elfi alla loro dea-madre, ma essi non erano che l'ombra di quell'immagine di perfezione che erano in origine. Quando ella li vide, infine impazzì e si suicidò gettandosi anch'essa nell'abisso creato per l'Ingannatore. Privati della bellezza e dell'immortalità, privi di una patria e perfino di una divinità da pregare, ripudiati anche dalle divinità supreme che non avevano più piani per loro, quei pochi elfi sottratti allo stomaco dell'Ingannatore fuggirono e si radunarono in un mondo-vergine, un giardino incorrotto dove tentando disperatamente di nascondersi. Trovarono riparo dagli occhi degli dei sotto la superficie degli oceani, dove la loro magia li salvò dalle acque e crearono così enclavi sottomarine e gli dei si dimenticarono di loro. Traumatizzati e segnati per sempre dal loro passato, l'esperienza della morte li aveva cambiati. Non più benedetti dall'amore della loro dea-madre gli elfi avvizzirono ulteriormente, le loro anime conobbero sofferenza, stenti e paura, e poiché gli occhi sono lo specchio dell'anima nascevano con le orbite vuote, prive di alcuna scintilla di luce. Quando una divinità straniera tentò di popolare il mondo che avevano eletto a dimora, essi scoprirono che potevano prolungare le loro vite assorbendo energia vitale dalle anime di altri mortali, vampirizzando le loro esistenze in modo da prolungare le proprie e sottrarsi all'agonia. Nella complessa società sottomarina emersero le figure degli Drukhe'i, gli Artisti dell'Anima, in grado di estirpare l'essenza di una creatura e condensarla in forma liquida, o polvere, o perfino in una materia simile all'ambra. Questi materiali venivano usati in vari modi, in forma liquida era ingerita ed usata come lenitivo per prolungare la vita e ritardare la vecchiaia. In polvere donava visioni, gioia, euforia e stati di coscienza alterata che non di rado sfociavano in visioni del futuro risvegliando al preveggenza. L'ambra d'anima, infine, poteva essere usata per salvare i nascituri dalla maledizione della mortalità, sottraendo una piccola percentuale delle nuove generazioni alla maledizione della mortalità; questi nascevano quindi sani, con gli occhi scintillanti di luce propria e capaci di superare le ere senza conoscere il dolore della vecchiaia.

    Ben presto però il dio-creatore di quel nuovo mondo capì che un verme maligno si annidava nella sua creazione. Quando fece la conta delle anime presenti sul suo mondo, notò che molte mancavano all'appello. Scandagliò ogni singolo palmo di terra, e non trovando niente posò il suo occhio sui fondali oceanici, scoprendo così gli esuli. La sua rabbia fu tale che maledisse quegli elfi con il nome di Slau'Dha, I Vermi delle Carcasse. Gettò un cataclisma sulla loro città e li disperse nel warp. Decimati e ridotti a piccole bande di esuli, gli Slau'Dha si abbandonarono alle correnti del warp lasciandosi cadere in pochi mondi, dove tentarono di rifondare le loro comunità raccogliendosi attorno ai pochi Drukhe'i sopravvissuti. Si impiantano nei mondi che trovano sul loro cammino come un male silenzioso, ed una volta pronti dal fondo degli oceani lanciano razzie per procurarsi le anime necessarie per sopravvivere. Sono odiati dagli dei e braccati dalle razze mortali, quindi una volta scoperti di solito passa ben poco prima che una crociata gli viene scagliata contro. Ma Endlos è un luogo dimenticato dagli dei, e quando il cataclisma ha colpito Berjaska una piccola enclave di poche migliaia di Slau'Dha è comparsa dal nulla, brillando per pochi attimi alla luce del sole prima di essere nascosta di nuovo dal maremoto, che come un velo nero la cela al mondo intero. Ora, dalle coste dell'ovest gli incubi attanagliano le rare comunità di pescatori che vivono sulla costa. Sognano un male silenzioso che emerge dai fondali, orbite vuote prive di occhi e pallidi volti scavati come quelli dei cadaveri che giungono armati di lame affilate per strappare via l'anima dai loro corpi...

    Le Enclavi

    L'enclave Eth'ari è una comunità di dimensioni medie fra quelle poche sopravvissute alla storia travagliata degli Slau'Dha. Si colloca da qualche parte a largo delle coste dell'Ovest, a circa trecento piedi di profondità, ed è composta per lo più da un groviglio di strutture piramidali a gradoni che sorgono l'una sull'altra, di solito aggrappate alle due strutture più vaste che sono il palazzo reale, sede dell'alta nobiltà, ed il tempio dell'anima, che comprende le celle dove vengono deportati i prigionieri e le camere mortuarie dove i Drukhe'i vengono addestrati usando i cadaveri degli Slau'Dha caduti in battaglia come strumenti per imparare la complessa e difficile arte di manipolare le anime. Tutte le piramidi sono collegate l'una all'altra in complessi sistemi di tunnel e catacombe, dove si svolgono le attività quotidiane della comunità. Tutti i tunnel portano inesorabilmente in direzione del centro esatto dell'enclave, sotto il palazzo reale, dove tradizionalmente sono collocati i mercati. Strati su strati di incantesimi mantenuti in vita dagli incantesimi legati a potenti cristalli magici permettono la vita sott'acqua. L'enclave Eth'ari vanta dodici di questi cristalli di cui la metà collocati nella grande piramide-tempio.
    Le enclavi presentano una rigida struttura a caste che però non è dettata dal sangue o dalla meritocrazia come nelle altre razze. Vi sono anzitutto i Vau, i senz'anima, ovvero la stragrande maggioranza della popolazione, ovvero elfi completamente glabri riconoscibili per il pallore mortale della pelle e la mancanza di occhi, la cui anima è rovinata e sono condannati ad una vita breve, la cui durata è variabile fra i quattro ed i seicento anni circa. Tutti i Vau sono addestrati a combattere e sono ferocemente devoti alle altre caste, gettando volentieri la loro vita in battaglia ritenendola di poco valore e fonte di dolore; è credenza comune che un Vau deve procurare almeno dieci prigionieri vivi alla sua enclave in modo da permettere la nascita di un elfo sano, la cui immortalità sarà il lascito del cittadino alla sua comunità. La casta più importante è invece quella dei Drukhe'i, gli Artisti dell'Anima, che assolvono i compiti di medici e sacerdoti, sono essenzialmente Slau'Dha in possesso di abilità magiche raffinate per manipolare l'anima dei viventi, in modo da estrarla ed usarla nei tre stati materiali a beneficio della comunità. A loro si rivolgono i Vau per conforto e solo loro hanno il diritto di concedere il suicidio a chi ne fa richiesta, solitamente Vau prossimi alla vecchiaia, che avverrà secondo rituali ben precisi che permetteranno di distillare la quantità maggiore possibile di Ambra dell'Anima. I Drukhe'i possono essere indistintamente senz'anima oppure no, anche se la stragrande maggioranza di essi sono elfi completi. Infine vi sono i Drukha'ri, la casta di burocrati, nobili e guerrieri, cui hanno accesso tutti gli elfi completi alla nascita che non sono dotati dei requisiti necessari a diventare Artisti dell'Anima. Il compito vitale della casta Drukha'ri è di guidare le enclavi in battaglia nei raid per rastrellare la quantità maggiore di prigionieri in modo da sostentare la comunità. Di solito la percentuale di Drukha'ri presenti in un'enclave è di uno ogni dieci cittadini, ma nelle enclavi più grandi e vetuste la percentuale è anche maggiore. Un matrimonio fra due elfi completi è un evento rarissimo ed accolto con grande gioia in tutta la comunità, la coppia riceve la benedizione di tutti i nobili in complesse cerimonie pubbliche, ogni nascita fra due elfi sani è un lancio di moneta, poiché le chance di un nascituro completo sono poco meno della metà, ed un evento del genere di solito è accolto con grandi feste e spesso raid concitati a danno delle sfortunate comunità vicine; tradizionalmente quasi tutto ciò che è prezioso che viene ricavato da queste particolari razzie è donato alla coppia.
    Le comunità Slau'Dha non fanno uso di un sistema monetario, al contrario la loro società è basata su ideali altruistici in cui tutti i Vau sono ben disposti a donare ogni loro possedimento materiale, compresa la loro stessa vita, per il sostentamento e la felicità delle classi dominanti e del resto della comunità. Di contro, sebbene gli elfi sono ben noti per essere una razza altezzosa e arrogante, i Drukha'ri tendono ad essere estremamente devoti al bene superiore della comunità, indottrinati fin dalla nascita all'assoluta necessità della sopravvivenza del gruppo sopra il singolo. Ciò che unisce maggiormente dal punto di vista spirituale l'enclave è invece l'astio nei confronti degli dei ed un angosciante culto dei morti. Non ci sono cimiteri in un'enclave. Quasi ogni cosa in un cadavere viene opportunamente riutilizzata a partire dalla preziosissima anima, a seguire dai ricordi del cadavere distillati in vari tipi di materiali ed usati a scopo di intrattenimento, poi le ossa molto popolari per la fabbricazione di monili ed ornamenti (statue, balconate, perfino i lastricati dei pavimenti sono tutti in ossa trattate), il sangue è usato al posto della tintura per le opere d'arte tanto apprezzate dai nobili Drukha'ri (che ritengono un privilegio poter ammirare un ritratto), mentre le parti molli e le carni di solito sono usate per fabbricare mangime per le poche razze animali che possono essere allevate per il sostentamento della comunità.

    Le Razzie

    Le razzie di questa razza elfica sono rapide, violente e spietate, precedute da attente e meticolose analisi del territorio mediante divinazioni eseguite da speciali branche di Artisti dell'Anima dotati di veggenza, aiutati in questo dal consumo sregolato di Polvere d'Anima che concede loro un ampliamento del "Terzo Occhio". Per via di questa caratteristica le enclavi non hanno esploratori propriamente detti, e questo è un bene perché le condizioni particolarmente estreme in cui vivono non consente loro l'allevamento di bestie da guerra che garantiscono maggiore rapidità negli spostamenti. Di solito vengono adocchiate comunità di almeno qualche centinaia di abitanti, preferibilmente indifese o scarsamente difese. A quel punto gli Artisti dell'Anima che guidano il raid scagliano incantesimi che provocano incubi e destabilizzano psicologicamente le prede nei giorni antecedenti alla razzia, che viene eseguita in modo meticoloso e spietato dalle élite di nobili Drukha'ri armati di spade, lunghe lance e armature pesanti. Mentre i nobili danno la caccia e annientano le sacche di resistenza uccidendo in modo sistematico qualsiasi individuo che possa costituire una minaccia, i Vau seguono armati di archi corti e frecce dalla punta smussata intinte di veleni paralizzanti, lance seghettate usate non per uccidere ma per mutilare e recidere tendini, in modo da causare il numero minore possibile di vittime fra i civili e trascinarli via verso l'enclave, dove saranno trattati dagli Artisti dell'Anima. E' vitale e primario per tutte le comunità che nessuno scopra la loro esistenza, sia per tenerli al sicuro da eventuali rappresaglie, sia per nascondere se stessi dall'occhio vendicativo degli odiati dei. Se scoperti e minacciati potrebbero essere costretti alla fuga attraverso il warp, che è non priva di pericoli poiché potrebbe portare alla distruzione all'interno delle capricciose risacche del maelstrom come anche all'approdo su lidi ancora più ostili, oltre a provocare un pesante tributo di energie alla casta degli Artisti dell'Anima incaricati di traghettare la comunità attraverso le correnti dell'immaterium, i quali sono obbligati a consumare quantità notevoli di Polvere d'Anima per eseguire il rituale e spesso perdono la vita, impazzendo oppure collassando per lo sforzo mentale e fisico.

    Descrizione fisica dei membri delle tre caste

    Se improvvisamente un Vau fosse sottoposto alle attenzioni di un sapiente, questi a stento riuscirebbe a vedere in esso un elfo. I Vau sono completamente glabri, hanno la pelle tirata, tanto bianca che ad un primo sguardo può sembrare malata, le orbite vuote come caverne nere e labbra sottili; solitamente hanno fisici atletici e magri perché quasi tutti sono addestrati nell'arte della guerra fin dal quinto anno di vita in modo che da adulti possano assolvere ai loro doveri nei confronti della comunità. In battaglia i Vau indossano corazze molto leggere in cuoio o tessuto trattato, ma spesso si presentano a torso scoperto per privarsi di pesi o limitazioni ai movimenti, questo perché il loro ruolo nelle razzie è quello di predoni, inseguendo le vittime e catturandone il maggior numero possibile,vivi, usando giavellotti, archi o lance seghettati e coperti di vari tipi di veleni paralizzanti. Rispetto ai membri completi della loro razza i loro corpi sono molto più soggetti a contrarre infezioni, ma di contro sono piuttosto rari i casi di un Vau che muore per cause naturali o per malattia poiché discendono comunque da una razza che era in origine quasi immune a gran parte delle malattie conosciute. Dal punto di vista alchemico le loro anime sono incomplete, ed i tratti comuni del loro corpo sarebbero solo un riflesso di questa condizione molto particolare; l'alchimista e stregone Artimondie in un saggio sulla frammentazione dell'anima dichiara che una condizione simile a quella congenita dei Vau è riproducibile in laboratorio prendendo un soggetto sano e spaccando la sua anima in vari modi (per esempio costringendolo ad uccidere un suo simile e provocando un forte shock a livello emotivo), ma al contempo dichiara che un simile atto non è materialmente riproducibile in un feto, poiché qualsiasi tentativo di frammentare l'anima di un individuo non ancora venuto alla luce provoca un aborto spontaneo. E' certo comunque che la condizione così particolare dell'anima dei Vau li rende estremamente vulnerabili ad incantesimi che attingono alla magia nera, che in certe sue forme attacca direttamente l'anima.
    La casta dei Drukha'ri al contrario rispecchia perfettamente l'aspetto fisico tipico di un elfo, solo con carnagione notevolmente più pallida a causa dello stile di vita di questa stirpe particolare, che passa gran parte del proprio tempo al riparo all'ombra delle enclavi subacquee. Fra i Drukha'ri sono comuni occhi chiari, mentre prevalgono i capelli neri e lisci e solo una percentuale minore della popolazione vanta un biondo platinato che essi stessi definiscono "simile ad oro bianco" che invece era molto comune nei loro antenati prima della catastrofe. In battaglia vestono armature decorate ed utilizzano armi letali come lance e spade lunghe, spesso brandite a due mani; questo perché nel raid lo scopo delle unità di Drukha'ri è quello di spezzare le resistenze in modo rapido e preciso per limitare il più possibile le perdite fra le proprie fila. Un parto naturale che porta alla nascita di un elfo completo è sempre accolta con grande entusiasmo e gioia nella comunità, e viene spesso vista come la dimostrazione della tenacia della loro razza ed una sorta di rivincita contro gli dei tanto odiati. La maggioranza degli elfi completi che esistono in una enclave sono però nati come tali solo grazie alla sublimazione nel feto di massicce quantità di Ambra d'Anima distillata dalla casta sacerdotale, in un rapporto di uno a cinque. Ciò significa che in un'enclave di duemila abitanti circa come la Eth'ari giunta su Endlos esistono circa duecento elfi completi, di cui all'incirca oltre centocinquanta sono nati solo grazie all'Ambra d'Anima ottenuta con il sacrificio di prigionieri. Prendendo ad esempio gli esseri umani, la "materia prima" più comune su Endlos, servono dai settanta ai cento prigionieri per distillare una quantità sufficiente di Ambra d'Anima a garantire il pieno sviluppo dell'anima di un nascituro, quindi dieci-quindicimila anime sacrificate al bene superiore per il futuro dell'enclave.
    Gli Artisti dell'Anima possono sia essere dei Vau con un'anima incompleta, sia elfi completi. Indipendentemente da ciò il loro ruolo-chiave nella comunità dell'enclave fa sì che in battaglia portano corazze ornate che li proteggono dai pericoli, spesso ricoperte di rune magiche ed intessute di incantesimi potenti. Tutti i Vau e la nobiltà guerriera dei Drukha'ri difendono strenuamente la casta sacerdotale poiché da loro dipende tutto il futuro dell'enclave. L'enclave non porta stendardi in battaglia, ma gli Artisti dell'Anima con le loro armature nere ornate di simboli dai colori sgargianti sono i simboli attorno a cui si radunano negli scontri più duri.



    Edited by Yomi - 5/2/2019, 23:44
     
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    Siamo salpati da Berjaska cinque giorni fa, con la poppa rivolta al mattino e la prua verso il crepuscolo. Decisi a raggiungere l’estremo confine occidentale del semipiano, siamo sopravvissuti all’incessante tempesta marina e agli attacchi dei leviatani che prolificano in queste acque selvagge. Ora vedo all’orizzonte un cielo diverso, in cui brillano stelle nere e due soli tramontano nel Vuoto del Maelstrom. Una città distorta emerge dalla foschia. Dinanzi all’ultima frontiera del mondo il mio cuore vacilla: che gli dèi ci aiutino…

    Dal diario di bordo di Gederg, il Navigatore




    Carcosa
    { Confine del Vuoto }

    Molte leggende del Multiverso narrano di Carcosa, la Città del Tramonto Eterno.
    Alcuni racconti la collocano su di un pianeta senza nome in rotazione sincrona rispetto al proprio sistema solare binario, in cui le innumerevoli lune in orbita eclissano continuamente delle stelle nane poco distanti – riempiendo la volta celeste di pittoresche “stelle nere”. Altri miti la concepiscono come un’anomalia del piano onirico, in cui convergono le coscienze degli sventurati sognatori che durante la veglia hanno assistito ad una particolare opera teatrale maledetta, il cui ricordo infesta i loro incubi fino a condurli alla pazzia.

    Nella mitologia Endlossiana compare in maniera disorganica e senza un’apparente correlazione nelle cronache di vari Presidi: è citata come seconda capitale del Presidio Nord contestualmente alla caduta della dinastia Kuzporat, risalente ad un’epoca buia di cui trattano solo alcuni tomi dell’Obelisco della Spina di Najaza; secondo “Genealogia dei Titani” - manoscritto conservato alle Cave del Sapere di Merovish - si tratterebbe di un’entità che ha tentato di erodere il Labirinto di Krarth alla morte del Primo Alfiere del Sud; Carcosa è indirettamente menzionata perfino in alcuni libri di astronomia appartenenti alla Via delle Leggi di Palanthas, che hanno teorizzato un’ipotetica zona di risacca nel Maelstrom che nei secoli potrebbe aver accumulato frammenti di Terre Riscritte ormai cancellate dalla Tempesta Eterna.

    Tale amalgama di fonti discordanti si è arricchita col diario di bordo di Gederg il Navigatore, l’intrepido esploratore che condusse il proprio equipaggio verso il Void occidentale in un folle viaggio senza ritorno. Per quanto i più scettici mettano in dubbio l’attendibilità della sua effemeride (reputata un falso sapientemente artefatto), essa s’inserisce come una chiave di volta che permette una sintesi approssimativa della letteratura precedente. Stando alle sue osservazioni, Carcosa sarebbe un’intersezione dei piani onirici e materiali, sospesa in uno stato d’incertezza quantica a causa delle turbolenze dimensionali provocate dalle correnti del Maelstrom. Tale condizione d’esistenza permetterebbe a quest’anomalia di assumere simultaneamente ognuna delle diverse connotazioni attribuitele dalle leggende: laddove il Void distorce le leggi della realtà, le rovine di una civiltà aliena rappresentano anche un incubo collettivo, potenzialmente in grado di affacciarsi sul semipiano in circostanze eccezionali.

    Il groviglio urbano di Carcosa si arricchisce ad ogni Riscrittura, ancorando al bordo del semipiano schegge di civiltà cancellate e ruderi di edifici dai più disparati stili architettonici: ziqqurat erose dal tempo si affiancano a torri gotiche diroccate, mentre la ruggine consuma le cupole dorate su cui si stagliano le ombre gemelle proiettate dalle strutture più imponenti e contorte – scheletriche e affusolate come spine dorsali di giganti ancestrali. La decadenza spiaggiata sulle rive del Gorgo Pandimensionale alimenta l’anomalia, che si nutre del potenziale latente degli imperi soppressi nei secoli, al pari di una vorace entità che può saziarsi solo col potere inespresso della civilizzazione. L’ingordigia di Carcosa non conosce ordine o distinzioni: i quartieri si accumulano come grasso viscerale e le strade s’intrecciano a formare un dedalo intestinale, restituendo un mosaico antico di eoni e raffazzonato dal caos.

    Trattandosi di un lido tanto remoto da non comparire sulle carte nautiche, è raro che dei viaggiatori s’imbarchino coscientemente per raggiungere questo reame ai confini del mondo. Fatta eccezione per alcuni sporadici cacciatori di chimere, sono ben più comuni i relitti dei vascelli naufragati e le zattere spiaggiate dai tifoni, che trasportano ignari marinai illusi di aver raggiunto la sicurezza della terraferma… e che infine rimpiangeranno di non essere colati a picco a loro volta.





    Hali
    { Lago delle Anime Perdute }


    Le reminiscenze di Carcosa sono accomunate da un elemento ricorrente: il lago nero sulle cui sponde sorge la città indorata dal perenne crepuscolo; tuttavia lungo il Confine del Vuoto nulla è come appare a prima vista.

    Oltre la coltre di nebbia che riveste il Lago Hali si cela un abisso ben più recondito di uno specchio d’acqua torbida. Le onde nebulose che s’infrangono a riva non scrosciano di spuma, bensì bisbigliano delicatamente alla coscienza di chi ne ascolta il reflusso, inducendo a immergersi nelle profondità d’ebano. Nel buio assoluto che avvolge chi si abbandona alla corrente si può udire il pianto sommesso di una miriade di anime agonizzanti, sommerse a loro volta e intrappolate in eterno nell’incubo ricorrente che - notte dopo notte - le ha vincolate a Carcosa.

    Sul fondale oscuro di questo ricettacolo spirituale giace un orrore innominabile, Antico quanto la città stessa e da quest’ultima alimentato per portarne a compimento l’apoteosi: popoli dimenticati, civiltà perdute, incauti esploratori, naufraghi disperati e sciagurati sognatori rappresentano il nutrimento della psiche abissale sepolta oltre l’orizzonte degli eventi di Hali. Se mai Carcosa dovesse raggiungere la sua ipotetica massa critica, il conseguente collasso gravitazionale potrebbe generare l’energia necessaria a risvegliare l’entità che riposa in fondo al baratro.






    Aberrazioni
    { Progenie dell’Abisso }


    Tra le vestigia di Carcosa prolificano creature che nulla hanno di umano.
    Ogni volta che la città emerge dal Vuoto per nutrirsi dello zeitgeist di una civiltà destinata all’annientamento, solo una percentuale irrisoria dei relativi popoli sopravvive al processo, assistendo allo sterminio della propria gente nella più completa impotenza. Tale trauma porta al delirio chiunque sia scampato alla catastrofe, rendendo i reduci più suscettibili a subire le alterazioni indotte dall’aura malsana che impregna l’Anomalia. I superstiti perdono inesorabilmente la propria umanità, mutando in esseri aberranti privi di raziocinio e condannati a perdurare insieme a Carcosa, di cui diventano parte integrante.

    Si narra che nel corso degli eoni ci siano state poche ma significative eccezioni alla metamorfosi: alcune etnie aliene si sono adattate al nuovo ambiente grazie alla versatilità della propria biologia, stanziandosi negli anfratti del mosaico urbano che più si confacevano alle relative necessità.

    Su tutti spicca una colonia di Mi-Go che occupa le torri e le strutture sopraelevate, rimodellate similmente ad un termitaio colossale. Questa razza ibrida di crostacei-insettoidi è divisa in tre caste (operai, scienziati e soldati), le quali agiscono in sincronia grazie alla mente-alveare che interconnette i singoli individui. La colonia è dedita all’estrazione mineraria del “Tok'l”, un metallo esotico ricavato da un solo giacimento endlossiano dall’ubicazione segreta, in cui il viavai degli invisibili Mi-Go operai è coperto dal massimo riserbo plausibilmente grazie alla collaborazione della popolazione locale. La lavorazione del Tok'l da parte della casta scientifica consente il progresso tecnico della colonia soprattutto in ambito chirurgico, indispensabile per innesti e rimozioni di organi che permettono un rapido adattamento alle periodiche mutazioni ambientali che affliggono Carcosa. All’interno del nido si svolgono inoltre i rituali riproduttivi per fecondare i baccelli nelle camere incubatrici: ciò avviene tramite un complesso culto di fertilità, tanto cruciale per la sopravvivenza dei Mi-Go che - in caso di necessità - gli esemplari adulti non esitano a immolare il proprio corpo per incubare le larve della generazione successiva – le quali banchetteranno con le carni dei propri antenati e ne assimileranno le conoscenze. Durante l’occulto processo d’inseminazione la casta dei soldati protegge la colonia da eventuali aggressioni, siano esse perpetrate da altri predatori che ammorbano il Regno del Vespro o da invasori di diversa provenienza.

    La baia di Carcosa è invece infestata da una comunità di Arcaici, creature simili a mastodontici anemoni di mare senzienti capaci di adattarsi a innumerevoli biomi, ma relegati sul fondo dell’oceano dall’antagonismo dei Mi-Go: tra le due razze intercorre una rivalità antica come il cosmo, pertanto gli Arcaici si sono insediati nell’unico ecosistema in cui la loro fisionomia può garantire un vantaggio sull’egemonia terrestre e aerea della colonia. Dotati di un massiccio corpo resiliente alla pressione delle profondità oceaniche, gli Arcaici si riproducono mediante spore e sono specializzati nella sintetizzazione della vita biologica: sfruttando l’energia geotermica delle fumarole sottomarine sono in grado di generare artificialmente organismi pluricellulari tramite la loro avanzata ingegneria genetica. I frutti dei loro esperimenti sono impiegati come servitori, sentinelle e occasionalmente come canale di comunicazione con la superficie.

     
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    Mirashima



    L’Ultima Isola, la Stella dell’Ovest, l’Ultimo Porto Sicuro prima dell’Abisso e del Vuoto. La Luce dello Specchio di Mirashima, onnipresente al calare della sera, come una stella bassa all’Orizzonte, svela ai naviganti la sua presenza aiutandoli a stabilire una rotta sicura ed evitare di spingersi troppo oltre in acque pericolose.

    Geografia
    Mirashima appare come un isolotto di modeste dimensioni principalmente roccioso. Il corpo principale dell’isola è circondato da una serie di secche ed acquitrini poco profondi da cui affiorano centinaia di spuntoni di roccia. Approdare sull’isola non è un’impresa difficile per le piccole imbarcazioni, ma le più grandi devono avere l’accortezza di mantenersi a distanza ed attraccare nei luoghi opportuni per evitare di incagliarsi nei fondali bassi e rocciosi. Sulla sommità del corpo roccioso principale si erge maestoso il Grande Cristallo, che da il nome all’isola. Modellato in una forma ovale questo Specchio dalle sfumature turchesi emette un bagliore unico, quasi mistico, visibile in qualsiasi condizione meteorologica, specialmente di notte. Non è chiara quale sia la fonte della sua luce, se sia per riflessione degli altri corpi celesti o per la sua mistica natura. Non è tantomeno noto il minerale di cui è composto e molti studiosi, in tempi recenti, hanno raggiunto l’isola per cercare di svelarne il mistero, incontrando, tuttavia, l’ostilità dei locali che venerano la loro Luce come una vera e propria divinità.

    Architettura, Cultura e Società
    La sua posizione e la possibilità di segnalare la sua presenza a grande distanza hanno fatto di Mirashima un punto di riferimento per tutti i marinai. Sul lato orientale dell’Isola, per facilitare l’attracco e l’arrivo dei viaggiatori, è stato costruito un piccolo porto, meglio noto come Porto Esterno, in cui le varie imbarcazioni, anche di dimensioni medio-grandi possono ormeggiare in modo sicuro. Dal Porto Esterno una serie di pontili e passaggi conduce i viaggiatori attraverso secche ed acquitrini, dedicati alla miticoltura, fino al corpo principale dell’isola e all’ingresso della Città Sotterranea, divisa in Città Alta e Città Bassa. Gli abitanti dell’Isola risiedono esclusivamente all’interno delle caverne sotto il grande Cristallo, avendo preferito dedicare ogni pezzo di terra disponibile -che non fosse esclusivamente pietra o roccia- a quei pochi arbusti in grado di crescere in quelle zone impervie. Appena oltre l’ingresso principale sorge la Città Bassa, che altro non è che un dedalo di caverne e gallerie che si affacciano su una sorta di grande piazza principale. Questa zona è sede delle attività commerciali dell’isola, in cui trovano posto mercati di pietre preziose -abbondanti nelle caverne più remote dell’isola- e botteghe varie. Queste grotte ospitano anche le taverne che offrono ristoro e riparo ai viaggiatori. La piazza principale termina con l’approcciarsi alla Caverna del Drago, la grande volta ricca di stalattiti che veglia sul lago sotterraneo fonte di acqua dolce per l’intera popolazione di Mirashima. Le acque cristalline del Lago possono essere attraversate per mezzo di piccole imbarcazioni a remi per raggiungere la Città Alta. Questa parte della Città non è che un altro dedalo di caverne e gallerie in cui risiedono esclusivamente i residenti permanenti dell’Isola e solo a loro è concesso l’accesso in questa area limitata. Solo in compagnia di un residente è concesso ad un estraneo di visitare la città Alta.
    Nonostante si trovi all’interno del cuore di Mirashima la Città Sotterranea non è per niente avvolta dal buio e dall’oscurità. Infatti, una serie di canali collegati al Grande Specchio amplificano e diffondono la luce turchese del cristallo in tutta la Città. Teoricamente le condizioni di luminosità non cambiano dal giorno alla notte, ma possono essere manipolate a piacere variando le aperture principali dei vari canali luminosi.



    Governo
    La società di Mirashima è retta da due organizzazioni: la Fratellanza della Tormalina e l’Ordine dello Specchio. La prima entità prende il nome da una delle pietre preziose ritrovate in quantità in alcune delle caverne dell’isola dai primi abitanti. La Fratellanza è a tutti gli effetti una gilda che controlla e gestisce tutte le attività commerciali dell’isola. I membri della Fratellanza non mirano alla ricchezza personale, ma si preoccupano del sostentamento della popolazione e della sua sicurezza. Oltre a controllare l’economia di Mirashima sono anche a capo della guardia cittadina, fondamentale data l’abbondanza di pietre preziose presenti sull’Isola. La seconda organizzazione prende chiaramente il nome dal grande Cristallo ed è un ordine a metà tra un culto religioso ed una gilda di carpentieri, anche loro discendenti dei primi abitanti dell’isola. I membri di rango più elevato sono trattati come dei veri e propri sacerdoti dal resto della popolazione, mentre il resto dell’Ordine si preoccupa di proteggere il grande cristallo e della manutenzione della Città sotterranea. Uno dei loro compiti è quello di mettere in sicurezza le varie caverne e gallerie e di scoprire nuove grotte e passaggi abitabili.

    Background
    A seguito dell’eruzione vulcanica che ha distrutto Berjaska i mari ed i territori sono cambiati per sempre. Intere regioni sono state sommerse, isole sono scomparse, ed altri tesori sono comparsi nelle acque dei mari occidentali, forse riaffiorati dagli abissi per mostrare ancora una volta al mondo i propri misteri.
    Mirashima è uno di quei tesori. Sebbene sia comparsa nei mari solo in tempi molto recenti, i naviganti hanno provato ad interrogarsi sulla natura di questo misterioso isolotto. Attratti dal grande cristallo in cima a questo atollo roccioso hanno ben presto scoperto come questo puntino ai confini del mondo fosse una terra ricca di gemme e pietre preziose. I più avidi non si sono mai interrogati sulla sua origine, i più eruditi hanno ipotizzato che le pietre possano essersi formate a seguito del raffreddamento rapido del magma nelle acque dell’Ovest a seguito dell’eruzione vulcanica. Altri, hanno invece ipotizzato come l’origine di Mirashima sia invero molto più antica e di come l’ultimo Cataclisma si sia semplicemente occupato di recuperare questo tesoro dal fondo degli abissi. Un tesoro riscoperto dalle genti dell’Ovest e levigato con dedizione nel gioiello che è oggi.
    Ma come è finito questo atollo remoto ad essere popolato dai cittadini endlossiani?

    Non erano in pochi i nativi dell’Undarm che durante il cataclisma si trovavano, per una ragione o per un’altra, lontano da casa e dalle terre natie. Magari perché in viaggio nei feudi del nord o addirittura in qualche altro Presidio. Non può quindi stupire lo sgomento e la disperazione provata da questi individui una volta ritornati a casa. O meglio, non avevano più una casa a cui tornare. Le loro città e i loro villaggi si trovavano ora sul fondo degli abissi e di amici e famigliari non restava che il più malinconico dei ricordi. Alcuni di questi sfortunati si tolsero la vita, altri provarono per quanto possibile di sopravvivere ed andare avanti con le loro vite nei Feudi confinanti. In pochi scelsero di stabilirsi sulla costa conducendo una vita malinconica di malcelata e triste nostalgia. Alcuni scelsero di prendere il mare, senza avere tuttavia una vera e propria meta. Forse speravano di imbattersi in qualche altro sopravvissuto. Magari, prima di essere travolti dallo tsunami, qualcuno era riuscito a sfuggire alla furia del mare dirigendosi verso le acque più lontane. O forse era un modo, meno esplicito, di porre fine alla propria esistenza facendo rotta verso il grande vuoto. Fatto sta che quel manipolo di disperati fece rotta verso l’estremo Occidente e dopo giorni e giorni di navigazione, dopo essere stati travolti da una violenta tempesta, scorsero un bagliore tenue ma deciso lontano e basso all’orizzonte. Persi nelle acque occidentali e in balia dei venti e delle correnti decisero di dirigersi verso quella luce. Quelli furono i primi Endlossiani a mettere piede sull’isola del grande cristallo.

    Nei giorni che seguirono i nuovi abitanti dell’Isola cominciarono ad esplorare quel piccolo ed intrigante angolo ai confini del mare. Scoprirono ben presto all’interno del corpo roccioso principale, in cui avevano cercato riparo dalla tempesta, una serie di caverne e gallerie, ed un grande lago sotterraneo. Quelle grotte diedero loro riparo dalle intemperie e il lago fornì loro una fonte pressoché illimitata di acqua dolce e sostentamento tramite le creature lacustri che lo popolavano. Non ci volle molto a realizzare che quella non era una formazione del tutto naturale. Ritrovarono infatti diversi artefatti, molto antichi, segno che qualche popolo in un tempo remoto doveva aver abitato quelle caverne. Anzi, capirono anche che quelle stesse caverne non dovevano essere completamente naturali, in quanto scavate e pensate come piccole abitazioni. Infatti presentavano tutte una planimetria abbastanza simile. Purtroppo i disegni e dipinti rinvenuti sotto pesanti strati di muschi erano troppo rovinati per fare luce sulla misteriosa popolazione che aveva abitato quelle grotte. Una volta passata la tempesta, che li aveva spinti a cercare riparo sull’isola, gli esploratori furono finalmente in grado di raggiungere la sommità dell’ammasso roccioso dove risiedeva il grande cristallo che li aveva condotti fin lì. La scalinata scavata nella roccia e che portava fino in cima fu un’ulteriore conferma dell’ipotizzato passato dell’isola. Nella luce del giorno e col cielo sereno la grande pietra brillava di una luce turchese quasi divina. Folgorati da quella visione i naviganti realizzarono che il loro viaggio si era finalmente concluso, decidendo così di stabilirsi per sempre nell’isola senza nome.

    Furono infatti loro a dare il nome a Mirashima, in onore della loro perduta Signora, che credevano li avesse salvati dalla crudeltà del mare. Fu sempre per renderle omaggio e per guidare gli altri naviganti che lavorarono il grande cristallo intagliandolo e levigandolo per dargli l’aspetto che possiede tutt’oggi, amplificandone il bagliore. La superficie ben levigata trasformò lo Specchio di Mirashima nella Luce dell’Ovest, attirando a se altri viaggiatori e guidando in sicurezza i naviganti dei mari occidentali.



    Edited by MysteryBox - 10/2/2019, 22:38
     
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    ルビー
    (Rubī)


    Nel mare dell’occidente, al pari di fenici, nuove terre sono emerse dalle ceneri della recente eruzione vulcanica avvenuta a Berjaska. Tra queste si conta anche un’isola dalle dimensioni ridotte parte d’un arcipelago variopinto. Essa possiede una popolazione di solo una trentina di anime che vive di pesca ed agricoltura. Una società semplice e autosufficiente il cui accampamento -formato da rudimentali casette in legno- è situato nell'entroterra presso la parte più rocciosa dell'isola dove è possibile reperire una maggiore quantità d'acqua piovana. Questa preziosa risorsa fortunatamente non scarseggia grazie al clima temperato che vanta piogge ben distribuite durante tutto l’anno; inoltre con le sue temperature medie moderate e una stagione fredda ben definita, ma non troppo rigida, il luogo garantisce condizioni più che sufficienti per l'adattamento umano.

    La peculiarità dell’isoletta che le dona anche il nome ルビー (Rubī), ovvero rubino, sono le tonalità rossastre che impregnano ogni cosa. Vari fattori giocano a favore di questa colorazione, come la componente altamente alcalino-salina del suolo situato sulla costa sud-est che consente un’abbondante crescita di una rara alga della famiglia Chenopodiaceae. Questa è caratterizzata da un intenso color rubino che crea un meraviglioso contrasto con il restante perimetro dell’isola protetto da un ventaglio di alte rocce di granito rosso tendente al rosa. Le pendici di questa barriera naturale si ramificano a loro volta su spiagge dalle sabbie cremisi, pigmentazione causata dall’incontro delle onde del mare col ferro depositato dall’attività vulcanica. Da qui è spesso possibile imbattersi in fenomeni di geyser causati dalle fuoriuscite di magma sottomarine.

    Inoltrandosi nel perimetro di Rubī, il terreno diventa ricco di sali minerali che consentono a una fitta vegetazione di proliferare. Qui troviamo aceri dalle tinte calde, arancioni, rosse e perfino violacee che si abbracciano a piccole piante come l’aucuba, dalle voglie verdi striate di giallo e i frutti scarlatti. Spingendosi ancora più nell’entroterra troviamo imponenti meli Fuji e radure di papaveri vermigli.




    Anche la fauna prospera in questo territorio: volatili come il fagiano d’orato, il picchio, il pericoloso Ouroboros dalle scaglie variopinte, e una grande varietà di innocui -o meno- insetti e aracnidi, mentre le coste nord-ovest sono spesso invase da centinaia di piccoli granchi rossi. Inoltre di tanto in tanto vengono avvistati a largo alcuni Nar’Qroth. Ma ciò che solo gli abitanti possono ammirare è celato nell’isola: qualcosa di pulsante come un cuore…
    …una lancia.



    L’arma finemente lavorata dall’osso scarlatto di un’antica creatura marina si erge al centro di un cratere dal terreno pietroso, scuro e venato di fuoco liquido. Ogni persona che posa lo sguardo su quell’opera d’arte si rende conto di una verità: pare che l’arma stia fremendo, come se volesse liberarsi e sfrecciare via.


    Da qui nasce la leggenda.

    La maggior parte dei pochi abitanti dell’isola hanno provato ad estrarre la lancia e, pur non riuscendoci, alcuni di loro hanno ottenuto delle risposte. Tramite vivide visioni hanno scoperto che si tratta di un artefatto potente e pericoloso creato dai resti di un leviatano. Un oggetto che attende di essere liberato dalla propria prigionia per tornare al suo padrone. Ad incatenarlo al suolo sembra essere stato il sacrificio di una donna, una vittima dello tsunami che aveva sconvolto l’occidente poco tempo prima. Una giovane dalle iridi cremisi e la mente in subbuglio che, come una candela dalla corta miccia, risplende di luce intensa a un passo dalla morte. Così, nell’ora più buia, di fronte al rombo del mare e la colonna di fuma trova il chiarore del fuoco e concede se stessa con un unico obiettivo... la libertà di chi ama.



    D’altro canto la popolazione di Rubī ha appreso qualcosa di sconcertante dalla lancia, da loro battezzata Akaibara (Rosa rossa). Sembra infatti che il potere scaturito da essa sia fonte di equilibrio per quella rossa terra. Alla sua energia sono infatti attribuite la veloce crescita della ricca vegetazione e il conciliarsi delle diverse varietà di terreni. Pertanto gli abitanti dell’isola hanno rinunciato all’idea di estrarre l’artefatto che ormai è visto come una sorta di sacra reliquia. Inoltre, per accaparrarsi i favori della Akaibara e placare la furia provocata dalle sue catene, gli uomini hanno adottato l’usanza di donare piccoli sacrifici di sangue a ogni cambio di luna. Così che il Caos non li faccia sprofondare nelle profondità del mare.





    Edited by Jester - 10/2/2019, 23:58
     
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