Caught in a Jar

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    Di tutti quelli che vennero dopo e che si unirono a loro, molti lo fecero per mancanza di alternative, alcuni per riconoscenza e pochissimi per vera fede. Fra questi ultimi, nessuno mai raggiunse il livello di devozione di C. - ché lui non soltanto credeva fermamente di stare servendo una persona giusta, ma addirittura sapeva di non potersi sbagliare. Era tanto fedele quanto potrebbe esserlo un cane, e altrettanto pericoloso se minacciato; un cane rabbioso, selvatico, in grado di riconoscere una sola mano come amica. Divenne presto il suo soprannome: lo chiamarono il Cane Nero del Re.
    - K. Myr, Leggende apocrife del Maelstrom

    ~

    Un movimento impercettibile turbò l'oscurità.
    Un fremito ne percorse le pareti, mille occhi rossi illuminarono la volta della sala, attirati da quell'unico palpito.
    Qualcosa si era mosso. Qualcosa che era rimasta immobile tanto a lungo da aver dimenticato di essere ancora vivo.
    Due sprazzi di cielo si spalancarono pieni di meraviglia e di un rancore antico, doloroso.
    Il primo respiro dopo un tempo lunghissimo e un solo, lunghissimo sibilo monocorde.
    « ...Aiutami... »


    CAUGHT IN A JAR
    · A W A K E N I N G ·

    8sW7gsa
    --


    Koldran, alcuni giorni dopo

    Tra i molti luoghi inospitali di Endlos, i più alti picchi del Drago di Pietra di certo meritavano una menzione d'onore.
    Caerbhallàin non era mai stato quello che si sarebbe potuto definire un patito della montagna - il suo luogo erano le brughiere e le verdi colline, quella desolazione bianca lo metteva a disagio, sembrava non dovesse finire mai. A ben vedere, era una possibilità da tenere in considerazione: aveva un'idea piuttosto vaga di come avesse fatto a finire lì, ma nessuna su come tornare nel mondo civile, ammesso che esistesse ancora qualcosa del genere.
    Quel che contava per lui, in linea generale, era il fatto stesso di essersi svegliato. Certo, era stato un bel colpo ritrovarsi in quell'antro oscuro, freddo e desolato; gli ci erano volute diverse ore prima di riuscire a riacquistare la mobilità, tempo che aveva impiegato a ricordare.
    Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso, ma i ricordi dell'accaduto avevano cominciato ad affiorare uno dopo l'altro, tutti estremamente nitidi. E dolorosi.
    Il Re - il suo Re - era scomparso, e questo aveva significato anche per lui dover cadere in un sonno profondissimo e senza sogni. In qualche oscura parte di sé doveva essersi convinto che quella sarebbe stata la sua fine, ma così non era stato. Aveva riaperto gli occhi, era tornato alla vita, e questo poteva significare soltanto una cosa: il Re era tornato, e lui aveva il compito di trovarlo.
    Quest'ultima parte, si disse, era quella che presentava maggiori difficoltà.
    Prima di scomparire, il suo Re lo aveva messo a dormire, dicendogli che nessuno l'avrebbe disturbato e che sarebbe rimasto lì per sempre, a vegliare sulla Cattedrale d'Argento. E, in effetti, si era risvegliato esattamente nel salone che l'aveva visto chiudere gli occhi molti anni prima. L'unica (minuscola) differenza era che quel palazzo che lui aveva conosciuto così bene, al suo risveglio non si trovava più nel Presidio Orientale. In qualche modo era finito lì, tra i ghiacci eterni del Koldran, mutilato di diverse sue parti e coperto di neve, circondato da altri scarti del maelstrom rimasti incagliati in quei picchi aguzzi. Un rudere come tanti.
    Vatti a fidare di un Re.
    Caerbhallàin si strinse nella sua mantella nera, scosso da un brivido di freddo. Erano giorni che girovagava intorno alle rovine, cercando qualcosa che proprio non riusciva a trovare. Il suo volto era tutto meno che comune, persino per gli standard di Endlos: dal collo in su, sembrava essere stato scorticato ormai da molto tempo e i muscoli del collo e della parte inferiore del viso, ben visibili, non sembravano irrorati di sangue fresco. La parte superiore del viso era come rammendata, con della pelle che, tenuta insieme da una cucitura spessa, scendeva a coprirlo fino alla bocca, lasciando però scoperti due ampi spazi sotto gli occhi, che erano di intenso color acquamarina.
    Ritrovandosi davanti a una scalinata un po' più riparata dal vento freddo, si sedette con aria sconsolata. A giudicare dalla posizione del sole non doveva mancare molto alla sera. Sarebbe rimasto lì ancora una notte. Da solo.
    Si passò una mano sotto il cappuccio, riavviandosi i capelli neri e unti. Allungò due dita ossute verso il basamento della scalinata, ne grattò via un po' di neve e ghiaccio, rivelando un'iscrizione di cui non riusciva a immaginare il significato. Era in una lingua che non conosceva, e chissà da quale angolo del multiverso dimenticato da tutti veniva quel rudere.
    Proprio quando sembrava che non potesse andare peggio di così, un alito di vento freddo fece tintinnare i campanelli che portava appesi alla sua sciarpa rossa. Sollevò il capo, incredulo.
    « Che posto del cazzo. »
    Stava nevicando.

     
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    L’ultima cosa che ricordo è una partenza.
    C’era un piccolo esercito radunato, pronto a muovere guerra contro qualcosa. Facce diverse, con occhi che vedevano mondi diversi; la bocca di uno sputava trepidazione mentre le dita di un altro, che trottavano senza sosta sul tavolo dell’accampamento, scavavano nel legno un posto dove nascondere la paura. Io ero con loro. Io andrò là, avevo detto, o una cosa del genere. Sento ancora il sapore di quelle parole in bocca e posso quasi vedermi mentre le lascio a mezz’aria. Ma sempre di passato si tratta. Tra quel momento e il tempo presente c’è stato altro, basta guardarsi intorno per capirlo.
    Sento ancora qualcosa, dalla punta delle dita che il freddo estremo ha tinto di viola. Il resto della mano è ancora racchiuso nei guanti logori di un tempo, ma le ultime falangi sono rimaste scoperte durante questo sonno involontario, che ancora non riesco a spiegare. Con la schiena poggiata su quel che resta di un muro in pietra, tranciato a metà da chissà quale sciagura, cerco di intravedere se, oltre la neve che continua a cadere, lenta, c’è qualcosa che posso riconoscere. Il dorso del drago di pietra, sì, quello è ancora lì. Sono ancora in questo mondo strano, dopotutto: casa mia è ancora perduta.
    Il mio occhio rosso mi avverte della presenza di qualcosa: vedo la traccia che il suo spirito lurido lascia nell’aria. Il corpo deve essere quello di un umanoide, e si sta trascinando lentamente verso di me. In attesa che anche l’altro occhio possa vederlo, lascio che la pistola scivoli lentamente fuori dal fodero. Mi chiedo se le mie dita saranno in grado di rispondere a dovere, al momento giusto.

    Cacciatore, dove scappi?



    La sua voce è stridula, sembra nascere da lontano. Mi conosce ancora prima di potermi vedere: almeno in questo siamo simili. I suoi passi sono leggeri, lenti – li sento scavare piccoli solchi sulla neve fresca. Solo un’altra parete, o quel che ne resta, ci separa e qui ho già un proiettile pronto a partire, quando cadrà anche quest’ultima barriera.
    Vedo prima apparire gli stracci logori che porta addosso: scure, pesanti stoffe avvolgono il suo corpo, lasciando scoperto poco, quasi nulla. Non ha armi e il suo corpo non sembra essere mutato in qualcosa di pericoloso. Eppure cresce in me un senso di inquietudine che mi irrigidisce i muscoli e accelera il fiato; non riesco a controllarmi, mi sento in pericolo. È una minaccia, è una minaccia e devo reagire immediatamente. Striscia oltre il muro diroccato, si mostra a me senza difese, a braccia aperte, anche dopo aver dimostrato di sapere cosa sono. È una minaccia, non c’è dubbio.
    Sparo un colpo di pistola, mentre realizzo quanto artefatta fosse quella paura che già corre via dal mio spirito, mentre le vesti della creatura cadono a terra. Dell’essere non c’è alcuna traccia. A terra non vedo impronte, tutto è immobile. Il mio occhio rosso non percepisce più niente. La macchia del suo animo è svanita, lasciandomi solo in quel mare bianco e quieto.

    I Re dormono, ma i loro servi sono svegli. E nel profondo della notte eterna, nascosti dall’accecante bagliore del mare di stelle che tu neppure riesci a scorgere, qualcosa di più ancora più grande vi osserva.



    La voce è l’ultima parte di quella creatura a lasciare l’esistenza. Rimbomba nella mia testa come un tuono, preme sulle mie costole e mi frena il fiato: cosa significa? Quella montagna era un luogo di domande, che nascondeva le risposte sotto ere di ghiaccio e neve. Non posso più starmene qui, fermo, ad attendere una morte che sembra essersi dimenticata di me, dopo avermi visto addormentato in quelle rovine. Mi alzo in piedi, svettando oltre quei muri diroccati che mi riparavano, alla buona, dal vento gelido. Davanti a me c’è qualcos’altro.
    Come ho fatto a non vederlo prima? Ai piedi di una scalinata c’è un essere dall’aspetto lugubre: ha un volto da giovane, ma composto da pelli diverse cucite tra loro, quasi si trattasse di una bambola di pezza. Non è un essere umano, stando al dolore che sento trafiggermi l’occhio rosso mentre lo fisso. Non serve che io alzi la pistola; non mi sento minacciato e, se è qui da un po’, di certo sa che sono armato. Ma come mai non l’avevo notato prima? L’altra creatura mi aveva rapito del tutto i sensi? Sposto per un attimo gli occhi da quello sconosciuto; li mando verso il punto dove, poco prima, si era mostrata a me la figura incappucciata. Del suo pesante mantello non c’è più traccia.
    Cosa sei?
    Chiedo, infrangendo il silenzio, allo sconosciuto ai piedi della scalinata. Tra noi un velo di neve continua a scendere dal cielo. Il Koldran è un luogo di terribili visioni, trattenute dal gelo in attesa di viandanti incauti.
     
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    L'aveva visto senza realmente vederlo, i suoi pensieri rivolti altrove, almeno fino allo sparo.
    Quello lo costrinse a concentrare le sue attenzioni su quell'uomo - ma era un uomo? - che aveva appena cercato di uccidere il vento e la neve, ché lì, a parte loro due, non c'era nient'altro che quello, oltre ai ruderi di civiltà perdute.
    Era un maschio, nemmeno troppo imponente, ma armato. Il Mastino lo fissò per un tempo estremamente breve.
    Benché il volto dello sconosciuto fosse coperto, lasciando intravedere solo due occhi freddi e duri quasi quanto la pietra di quella scalinata, decise che non rassomigliava a nessuno degli altri vassalli, né aveva l'aspetto di un re. In altre parole, non lo conosceva e il loro era quello che poteva definirsi un incontro fortuito. In quel luogo, e in quelle condizioni?
    Caerbhallàin ghignò. Il suo era un sorriso sghembo, colpa dei punti che univano pelle e carne, gli tiravano il volto rendendo qualsiasi sua smorfia più minacciosa e inquietante di quanto non fosse mai stato nelle sue intenzioni.
    Quello era il primo essere vivente che incontrava dopo il suo risveglio, un risveglio avvenuto a centinaia di chilometri da dove si era addormentato. Non sapeva nemmeno per quanto tempo avesse dormito, anche se a giudicare da ciò che rimaneva della cattedrale non doveva essere stata esattamente una pennichella.
    Quell'incontro non era un caso. Non gli avrebbe permesso di esserlo.

    Quando finalmente l'altro si accorse della sua presenza, il Mastino fece per coprirsi il volto con il cappuccio. Non era solito mostrarsi con le sue reali fattezze agli esseri umani; generalmente le reazioni andavano dalla curiosità al ribrezzo, passando per una sincera commiserazione che era forse la cosa peggiore. Si trattenne, però. Quell'uomo non aveva esitato a sparare nel vuoto qualche istante prima. Un uomo del genere è uno che è meglio non contrariare. Lasciò che lo squadrasse, che capisse che lui, il Cane Nero, non era un suo simile, che nella sua esistenza non rimaneva più molto di umano. Si strinse nelle spalle, però, avvertendo un brivido lungo la schiena.

    « Cosa sei? »
    Non chi, ma cosa.
    Quella era davvero un'ottima domanda.

    « Uno spettro » spiegò, sbuffando. « Il secondo che vedi oggi, a giudicare dal tuo comportamento di poco fa. »
    Allargò le braccia, come a dire che era stato beccato e poteva farci davvero poco.
    « E tu chi saresti? » chiese di rimando.
    « E soprattutto, cosa ci fai qui? »

     
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    Questo mondo sta andando davvero a rotoli, oppure è il mio occhio maledetto a portarmi sfortuna? Con tutti i posti in cui era possibile svegliarsi, ero capitato in una rovina infestata dagli spettri. L’innocenza… annoiata con la quale quella creatura mi ha rivelato la sua natura è sconcertante. Ho passato anni a dare la caccia a bestie deformi, mutazioni oscene che trasfiguravano i volti e i corpi degli uomini, senza mai trovarmi davanti a un qualcosa di altrettanto soprannaturale che non aveva come primo intento quello di uccidermi, sbranarmi o avvelenarmi a morte. E ora trovo prima uno spirito profeta, quindi uno annoiato.
    Leonard”, rispondo, perché quella domanda ha fatto scattare una sorta di meccanismo automatico che, di norma, dovrebbero innescare solo i miei simili.
    Il mio nome è Leonard.
    Le rovine intorno a noi non raccontano molte storie. Bisognerebbe scavare sotto gli strati di roccia franata, detriti e ghiaccio per cominciare a intravedere delle risposte. Cercare il motivo del nostro incontro in quello che ci circonda sarebbe inutile. Almeno per me.
    Ma non credo, d’altra parte, che si tratti di un sogno o di un incubo. Il freddo mi sta stringendo i polpastrelli e sento le gocce di condensa poggiarsi sulle guance ancora coperte. Ma dove sono finiti tutti? Questo pensiero è un martello su un’incudine, e la mia testa sta lì nel mezzo.
    Che cosa ci faccio qui? Il primo spirito che ho incontrato sembrava avere intenzione di rivelarmelo e, se devo essere sincero, speravo che tu finissi quello che lui aveva cominciato.
    Senza fare movimenti bruschi ripongo la pistola. Non tanto perché io mi senta al sicuro -- che cosa ne so, di cosa può fare uno spettro? Che cos’è, di preciso, in questa realtà confusa, uno spettro? -- ma perché ho la sensazione che i miei proiettili non vadano a nozze col suo corpo.
    Ero insieme a un esercito. Stavamo per partire, alla ricerca di una creatura maledetta da abbattere, di una maledizione da spezzare. Ma dal momento della partenza a ora non ho idea di cosa sia successo. Ammesso che sia successo qualcosa.
    Rispondo, senza avvicinarmi a lui di un passo. Un conto è riporre l’arma, ma correre tra le braccia di un qualcosa di sconosciuto è tutt’altra faccenda.
    Anche se, vedendoti, mi viene da pensare che la maledizione sia ancora in piedi.
     
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    Quel racconto non gli giungeva del tutto nuovo. Eserciti, maledizioni, una creatura malvagia da sconfiggere e distruggere.
    Sarebbe potuta essere la sintesi della sua storia, per certi versi. La differenza, e non di poco conto, era che Leonard sembrava non ricordare cosa fosse successo fino a quel loro incontro, mentre al contrario il Mastino conosceva perfettamente il suo passato; cosa che comunque non lo metteva al riparo da un altro tipo di incertezza, forse più grave. Quanto tempo era trascorso? Quanto a lungo aveva dormito?
    Si lasciò scappare qualcosa di simile a un sospiro, poi parlò:
    « Temo di non valere un granché come profeta, Leonard. »

    « In compenso » riprese un attimo dopo « per quanto riguarda le maledizioni sono un... autodidatta con una certa esperienza in materia. »
    Sorrise, e per quanto si sforzasse di farlo apparire il sorriso sincero che era, ne venne fuori qualcosa di più simile a un ghigno perverso.
    « So che ti risulterà difficile crederlo, ma non sono sempre stato così bello. »

    Si alzò in piedi e iniziò a guardarsi intorno, come avesse una qualche speranza di riuscire a orientarsi.
    « Credo sarebbe una buona idea toglierci di qui. »
    Così dicendo, si voltò verso le rovine della Cattedrale d'Argento, che erano lì a pochi minuti di un cammino reso difficoltoso dalla neve che continuava a scendere e dal gelo che iniziava a serrargli le membra, sebbene lo percepisse in maniera ovattata, quasi incerta.
    Dopo pochi passi, si fermò, e da sopra la spalla, domandò:
    « Vieni con me? »

     
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    Lo spirito non ne è a conoscenza; lo spirito non è qui per me. Ma ha una cosa che a me, in questo momento, manca: una direzione. Si incammina verso quel dove, dandomi le spalle. Se si fosse trattato di un’altra bestia, lo avrei considerato come un regalo inatteso. Gli avrei sparato, anche solo per capire che effetto avrebbero sortito i proiettili; è buffo, ripensandoci ora, quanto l’artiglieria, nel mio mondo d’origine, fosse usata per dare il benvenuto, durante la caccia. Il mio mondo d’origine, già. Maledetta sia sempre quella tempesta, che di lì mi ha tolto.
    Se fossi lì, se fosse un altro giorno, se fossi quello che ero, agirei diversamente.
    Ma non lo sono, non più -- non adesso -- e chissà se tornerò mai a esserlo. Per questo dissotterro i miei piedi dalla neve e faccio un passo verso lo spirito, seguendolo.

    Dove?”, gli chiedo, nascondendo la prima parte della risposta. Ormai è implicita: sto già andando assieme a lui.
    Che avrei dovuto fare? Non posso ancora evitare di sentirmi giudicato da un’istituzione che è lontana anni, ere, universi: che cosa stupida, la mente. Neppure questo freddo riesce a impedirmi di formulare pensieri del genere. Comunque, il gelo avrebbe avuto ragione di me, presto o tardi. Già posso ritenermi fortunato a non essere morto, dopo essere rimasto indietro rispetto al resto dell’esercito.
    Ammesso che ci sia ancora quel manipolo di disperati, su questa montagna maledetta. Sulla quale io, maledetto dal sangue di creature immonde, pedino uno spettro autodidatta in materia di maledizioni. Non c’è male.

    “Questo posto è ancora più morto di te”, dico sospirando. Tra due cumuli di rocce ci sono dei piccoli ramoscelli secchi, anneriti dal tempo. Li strappo e, camminando, li riduco in piccoli pezzetti; prendo, da sotto il mantello, l’Atanor. Il piccolo forno è gelido: soffio tra le sue parti cave, spargendo in giro una piccola nuvola di polvere e ghiaccio. Adagio con cura i pezzi di legno nella camera di combustione -- le mani mi tremano un po’ e ho poca sensibilità: lascio in giro un po’ di briciole. Una scia di punti neri sulla neve bianca.
    Accendo, con un po’ di pazienza, il fuoco nel piccolo forno. Non c’è un procedimento alchemico che mi spinge a dar via a quella minuscola fiamma: è il calore stesso a interessarmi, ora. I miei maestri direbbero che è una bestemmia, usare uno strumento così raffinato per farne un fuocherello da campo.
    Al diavolo. Quei maestri non si sono mai trovati sul dorso di una montagna innevata. Darebbero fuoco a tutti i loro libri, pur di scaldarsi per cinque minuti.
     
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    Lo spettro indicò quello che rimaneva della cattedrale: una grande sala sventrata, lunga una quindicina di metri e grande la metà, che in altri tempi aveva rappresentato navata centrale dell'edificio.
    « Lì. »
    Non erano che pochi passi, giusto un paio di minuti prima di raggiungere
    il marmo coperto di neve e ghiaccio, scivoloso e infido - traditore, ma a suo modo fascinoso.
    Uno spazio ampio, per niente illuminato, reso cavernoso da quella porzione di mura e tetto - altissimo, così lontano da confondersi col cielo - che ancora non era crollata. Questo rimaneva della cattedrale, e lì venne guidato Leonard.
    Caerbhallàin non disse nulla finché non furono lì.
    Nel momento stesso in cui il suo piede calpestò il luogo in cui si era risvegliato, parlò.
    « Questo luogo è stata la mia casa per molto tempo. Ora lo vedi così, abbandonato in mezzo alle montagne, ma un tempo sorgeva nella valle più incantevole del presidio orientale. »
    Fece un mezzo giro su se stesso, allargando le braccia come se volesse mostrare una meraviglia del mondo e dell'ingegno umano, laddove c'erano pochi calcinacci, mattoni coperti di neve e qualche nicchia contenente delle rappresentazioni che di sacro avevano ben poco.
    « Sto cercando qualcosa » spiegò, in tono neutro. « Qualcosa che mi dispiacerebbe perdere. Un ricordo a cui tengo molto. »
    Così dicendo, si mise a rovistare nei cumuli di neve più piccoli, tra una panca di legno marcescente e l'altra - alcune delle quali erano irrimediabilmente sfasciate. Lo faceva con una cura certosina che tradiva tutto il rispetto che provava per quel luogo. E per chi, prima di allora, lo aveva abitato.
    « Mi hai parlato di una maledizione » riprese, mentre continuava la sua ricerca.
    « Mi piacerebbe aiutarti, ma vorrei saperne di più. Nello specifico, perché credi che sia ancora in piedi? - per usare le tue parole. »

     
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    Dunque la tempesta non è letale soltanto per ciò che si trova fuori da questo mondo. Tutto è minacciato dal caos: fare lo storico o l’archivista, da queste parti, non dev’essere una passeggiata. Nelle rovine dove lo spettro mi ha trascinato respiro un’aria familiare; quell’architettura decaduta ha in sé un eco della cattedrale dove sono cresciuto. Per un attimo mi sono sentito a casa – un pensiero fugace, sfortunatamente, ma ora forse capisco cosa prova quell’essere, che mi porta in giro come un cagnolino. Sarà stata opera di esseri umani, anche questo edificio? Magari gli uomini, in diversi universi e tempi diversi, avevano finito per sviluppare tecniche simili. O forse una scoperta particolarmente rilevante riecheggia nell’universo, e l’idea si accende a catena in menti che non si incontreranno mai.

    Quante cose nascondono queste montagne?” gli domando, mentre cerca con grande attenzione tra quelle macerie senza tempo. Mi chino, controllo bene il terreno in più punti: quel posto sembra essere immacolato. Neanche le tracce del passaggio di qualche animale; questo è, a pensarci bene, più strano. Un posto simile potrebbe attirare qualche bestia in cerca di riparo, ma forse lo percepiscono come qualcosa dal quale tenersi alla larga.
    Non credo che quello che cerchi sia stato portato via da altri: sembra che nessuno metta più piede qui da molto tempo”, gli dico, mentre stacco da uno dei ruderi un aculeo di ghiaccio lungo quasi quanto il mio avambraccio.

    Mi siedo in un angolo, tenendo l’Atanor ancora acceso tra le mani. Piccole nuvolette di fumo escono dai buchi finemente lavorati del forno, mentre cerco di tenere per me anche la più piccola briciola di calore. Faccio lentamente sciogliere il ghiaccio, lasciando colare le gocce nella borraccia.
    L’esercito al quale mi ero unito aveva combattuto altre battaglie, per distruggere degli oggetti noti come filatteri”, gli spiego, mentre continuo ad accumulare acqua preziosa, “e, prima che mi risvegliassi qui, stavamo per partire per l’ultima battaglia. L’obiettivo era una creatura molto potente, un Lich. La gente del luogo sperava che, distruggendo quella creatura, si sarebbe spezzata la maledizione che avvolge, col suo alone di morte, questo presidio congelato.
     
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    Quante cose nascondono queste montagne, Caerbhallain?
    Quante ne hai già viste? Quante vuoi dimenticarne?
    Forse non sono le montagne, il problema. Forse sei tu.
    -

    Lo spettro si passò una mano sul volto, con i polpastrelli quasi congelati sfiorò le cuciture che gli tenevano insieme il viso e gli sembrò di non sentirle - era come se le mani che lo toccavano fossero di qualcun altro. Si riscosse subito: nessuno lo avrebbe mai toccato, non così.
    « A giudicare dal tempo e dal panorama » dice « ci troviamo sulle vette del Drago di Pietra. »
    Non il posto migliore in cui risvegliarsi, temo.
    « Pare che finiscano qui alcuni relitti caduti dal vortice del caos. Sì, dev'essere così. Una riscrittura è l'unica spiegazione. »
    Si rese conto quasi subito di essersi lasciato scappare qualche parola di troppo. Cercò di rimediare riportando l'argomento sulle disavventure di Leonard, mentre stava chino su un cumulo di neve, scavando a mani nude fino a incontrare il ghiaccio.
    « Filatterio » iniziò a salmodiare, « ovvero un qualsiasi corpo inanimato che sia stato battezzato tale da un Lich, o non-morto, e che abbia così assunto le caratteristiche di suo feticcio o simulacro, rappresentandone il legame con il mondo dei viventi. »
    Annuì svariate volte, mentre continuava a scrutare intorno a sé alla ricerca di tracce, indizi - qualunque cosa potesse condurlo alla fine della sua ricerca.
    « Lich e maledizioni vanno a braccetto. Credo di capire. »
    Fece una pausa, sollevò il dito indice e si sforzò di sorridere.
    « La vostra era una battaglia difficile! E non è detto che sia finita. Non so molto sulla maledizione di questa terra, però. Ho dormito a lungo, immagino che molte cose siano cambiate da allora. »
    Lo disse come fosse la cosa più naturale del mondo - e per certi versi era così.
    Essere uno spettro era per lui qualcosa a cui aveva avuto il tempo di abituarsi, fino a renderla ovvia. Leonard aveva riconosciuto subito la sua natura e sembrava averla accettata con una certa flemma. Non aveva motivo di nascondersi.
    « Non disperare, però. C'è sempre un modo per tornare a casa. »
    I suoi occhi brillarono vedendo un riflesso d'argento in un angolo remoto della sala. Lo raggiunse con passi rapidi, impazienti, momentaneamente dimenticandosi della presenza del suo nuovo compagno di viaggio.
    La vide, ancora prima di vederla; ne spuntava dalla neve solo una piccola porzione, una lamina d'argento, ma non avrebbe mai potuto non riconoscerla.
    Si chinò, la trasse dal gelo, con gesti carezzevoli la scrostò dal ghiaccio e la strinse contro il petto - come potesse riscaldarla.
    Era una maschera, una maschera d'argento attraversata da due segni rossi sotto gli occhi. Una maschera che aveva indossato per anni, quando aveva ancora una casa, un posto da proteggere - un posto per cui morire o uccidere.
    Una maschera più conosciuta del suo vero aspetto, di quel suo viso spaventosamente simile a un cadavere.
    Era tutto quello che rimaneva di casa sua. Già, c'è sempre un modo per tornare a casa...
    « ...basta tornare indietro sui propri passi. »

     
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    Non saprei, non credo di poter essere d’accordo.
    Sentir parlare di ritorno a casa smuove dentro di me un sentimento cupo, che guarda in un’unica direzione: verso l’interno della mia anima. Non riesco a trovare neppure un briciolo di empatia da lanciare, come un appiglio, in questi casi. Mi succedeva anche nei brevi viaggi assieme ai soldati, durante quell’ultima avventura tra queste montagne.
    Queste montagne sono forse parte del problema. Anche io sono un relitto caduto dal vortice del caos, dopotutto. Non ho idea di cosa sia quello a cui si riferisce, né tantomeno cosa si intenda, da queste parti, con riscrittura. Ma tornare indietro sui miei passi, data la situazione in cui mi trovo imprigionato, è un consiglio che fa crescere in me una punta di rabbia.
    Sono stato sputato da quel vortice, in qualche modo che hanno provato a spiegarmi, ma ancora non capisco.
    Quella punta di rabbia infetta il mio tono di voce, che tradisce la mia insofferenza.
    Gli unici passi che ho fatto, da allora, li puoi vedere nella neve di questa montagna. Ho attraversato sentieri, combattuto bestie assurde, trovato e perso commilitoni.
    Vorrei aver avuto il tempo di conoscere e imprimere nella memoria almeno qualcuno dei loro nomi. Così ora potrei sentire di aver avuto un legame, seppur vago e dettato dalle circostanze, in queste terre così amare.
    Dovrei seguirli a ritroso, per poi cercare di saltare abbastanza in alto da tornare in mezzo a quel vortice?
    Ancora una volta guardo dentro di me e solo dentro di me. Sono ingiusto: mi trascino, forse per noia o forse per confusione, dietro a questo spirito che ha i suoi motivi per essere qui – è evidente, li stringe tra le mani che pure non credevo riuscissero a trattenere qualcosa. Per lui, il discorsetto dei passi indietro ha funzionato.
    Perdonami”, gli dico, riportando un po’ di calma nella mia voce. “Sono sensibile all’argomento. Ma è un bene che, almeno nel tuo caso, tornare indietro abbia funzionato.”
     
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    fhear a' bhàta

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    Istvàn.

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    Lo spettro scrollò le spalle, scuotendo i campanellini legati alla sua sciarpa che tintinnarono allegramente. Sorrise, di un sorriso sincero e colpevole - aveva letto la rabbia di Leonard nelle sue parole, e si dispiaceva di esserne stato la causa. Allo stesso tempo, anche lui aveva vissuto la sua buona porzione di infelicità, dolore e perdita. Tuttavia, l'atteggiamento di Leonard non riusciva a infastidirlo, piuttosto lo spingeva a una comprensione che non aveva nulla di pietoso: uno spirito inquieto non fatica a riconoscerne un altro e, se è il caso, a trascinarselo dietro.
    « Non saprei » disse. « Questo è solo il primo passo indietro che faccio. »
    Le dita strinsero la maschera quasi con rabbia.
    « Un tempo avevo una casa, questa » spiega, indicando l'intera cattedrale con le braccia spalancate. « Questo luogo non si trova più dove l'avevo lasciato. Non è nemmeno detto che ci sia una casa in cui tornare, nel mio caso. Sono abbastanza antico da sapere che nulla permane immutato. »
    Abbassò allora lo sguardo e sfiorò il bordo inferiore della maschera con i polpastrelli violacei.
    « Non ti dico che dovresti tornare indietro fisicamente fino a saltare dentro il vortice del caos, né che riuscirai a tornare a casa domani. »
    Sorrise di nuovo. Non riusciva a non farlo, era parte della sua natura essere contento anche solo per il fatto di poter parlare con qualcuno.
    « La speranza. La volontà di raggiungere un posto da chiamare casa, qualunque esso sia. E se non esiste, crearne uno. »
    Dopo una breve pausa, aggiunse: « Sì, credo sia questo quello di cui parlavo. »

    Voltò le spalle a Leonard, armeggiando per qualche istante.
    Quando risuonò ancora, la sua voce aveva una nota metallica.
    Si voltò, aveva indossato la maschera e sollevato il cappuccio, e il suo aspetto era più spaventevole in quel momento di quanto non lo fosse la sola vista del suo corpo malamente rabberciato.
    « Io devo riprendermi la mia casa, Leonard. E anche tu.
    Questo ci rende, se non proprio compagni, almeno simili. Potremmo viaggiare insieme, almeno per un po'.
    Che ne dici?
    »

     
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    Bimbo Sperduto

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    Come mai sto prendendo in considerazione la sua proposta? Non è tanto il fatto che quello spettro mi abbia chiesto di accompagnarlo, a stupirmi; rendersi conto di quanto questo mondo freddo sia riuscito a influenzarmi, in così poco tempo, mi scuote molto di più dell’idea di farmi una chiacchierata con un fantasma e passeggiare assieme a lui nel mezzo a un cumulo di rovine congelate, piombate sulla cima di una montagna partendo da chissà dove e da chissà quando.

    Ognuno ha i suoi fantasmi, Leonard.



    Che ironia: il tempo dà sempre ragione ai saggi. Me lo disse uno dei miei insegnanti, dopo l’incidente che tinse di rosso uno dei miei occhi. Va da sé che non si riferiva a questo, ma quella volta non mi sembrava un detto adatto a me. Sicuramente avrò pensato che c’erano eccezioni; eccola lì, ora, la mia eccezione. Con quel tono metallico di quella voce che rimbalzava su una superficie finalmente solida, lo spettro tende una mano che io non posso stringere.
    Sono rimasto già troppo tempo incastrato tra roccia, neve e ghiaccio. Se restassi su questa montagna sarebbe lei a vincere, presto o tardi.
    Non posso accontentarmi di un sì o un no. Mentre parlo, la mano libera dall’Atanor – che ancora si lascia scappare soffio di fumo e un filo di luce calda – scorre su ciò che resta di una delle pareti, ormai fin troppo ricca di finestre sul paesaggio circostante.
    Finirei così. Diventerei un monumento in rovina. Il massimo che potrei fare sarebbe continuare a combattere battaglie di altri, cercandone di simili a quelle che avevo nella mia vita passata.

    Gli occhi tornano sulla figura spettrale. Non posso farne a meno, ho una certa diffidenza che innesca subito degli automatismi, quando si tratta di creature sovrannaturali; il mio cervello si aspetta sempre una reazione ostile e mi comanda di stare attento.
    Posso accompagnarti, ma aspettati un compagno di viaggio diffidente. Nel mio mondo eravamo abituati a sparare alle creature… fuori dal comune.
    Non gli ho dato della bestia; è un primo passo.
    Ma immagino che questi proiettili non siano una grande minaccia, per te. Quale sarebbe la direzione?
     
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