Primo naufragio

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    Ho sognato un mondo che non esiste.

    Se tendo la mano sento ancora la neve.
    Poi la neve si è trasformata in acqua, un soffio che mi ha portato via.
    Strepiti e grida. Cozzare di ferro su ferro.
    L’odore del tradimento.
    Una corrente che mi solleva. Discendo le anse di questo fiume.
    Il sole spia dietro le mie palpebre.
    Bussa, esige il suo prezzo.
    Ancora rumori. Sangue. Imprecazioni.
    Ordini ben scanditi. È tutta una manovra.
    Qualcuno ci ha fregati.

    Apri gli occhi e le loro facce non ci sono.
    Le orecchie bagnate dall’acqua, qua tutto è pace.
    Un paesaggio che non conosci. Colli e dolci prati.
    Un fiume che mi porta.
    Cullato in questo liquido, i sogni cancellano la presa della realtà.

    Il giorno era stato designato con l’intervento della Luna. Garlan tracciando i segni assaggiava l’erba del mattino. È la forma della rugiada che a rivelargli il momento propizio. Dopo, abbiamo ballato e tracannato birra e droghe per festeggiare. Per prepararci. L’iniziazione di un nuovo adepto ai Misteri del Sangue è un pasto che va salutato caldo. L’iniziazione, la mia.

    Il giorno senza ritorno.

    L’euforia palpabile attraversa il campo. Le ultime settimane ci hanno strappato via tanto. Quattro sono caduti per difendere una misera fattoria. Morti ridicolmente eroiche. Strenuo tentativo di arginare un’ombra che striscia. La dignità di questa povera famiglia, che mentre seppellisce una manciata di figli e il loro unico asino, che mentre spegne gli incendi che si mangiano i campi, la dignità è questa famiglia che si sbraccia per compensarci con una forma di formaggio, e dietro il palmo ha i buchi nello stomaco. È per questo che siete morti, compagni miei? Samoargh, Glorfing, Dargonah, Tremiel? Per un pezzo di formaggio, o per inseguire testardi l’alone di un sogno? O semplicemente, perché andava fatto?

    Ingoio l’acqua con un colpo cieco dei polmoni. Nelle vertebre. Negli occhi.
    La vertigine della tosse mi riprecipita nei miei sensi.
    Lucido e ammaccato, la mia mano afferra ora i ciottoli di una riva.
    Per miglia e miglia la corrente mi ha trascinato qui. Fino a questa ansa.
    Sollevare il corpo mi richiede uno sforzo sovrumano. Come se l’atonia dei muscoli si fosse protratta per secoli incalcolabili. Eppure, è dolce il canto di questo vento.
    Una sensazione fugace. Ricordo di dita femminili sul mio petto. Tocco leggèro.
    Mi volto di scatto.
    Dove mi trovo?

    Ho sognato, forse, un mondo che non esiste.



    Ciao caro! Ecco qua l'arrivo su Endlos di un alquanto disorientato Kranathar. Il naufragio è stato improvviso e inaspettato, e lo stile volutamente confuso di questo post vorrebbe provare a restituire questa condizione, mixando i ricordi degli ultimi istanti prima del viaggio extraplanare con le sensazioni che ora lo attraversano. Ora lascio a te campo libero su tutto il resto, e spero che sia una buona giocata! :-)

    La Canzone del Vento
    Nella Valle di Chediya -per opera di un antico incantesimo- spira sempre una dolce brezza profumata che ha la particolarità di produrre un suono lieve e melodioso quando attraversa gli ostacoli architettonici; gli effetti che esso produce sono benefici, in quanto infondono un senso di calma alle persone che lo odono e tendono a riportare i moti del loro nel cuore ad uno stato di dolce e conciliante serenità. Nelle giocate ambientate nella sezione di Chediya -soprattutto nelle città di Istvàn e Matafleur-, i giocatori che ascoltano il Canto del Vento devono considerarsi costantemente esposti ad una Malìa passiva che li invita alla calma.
     
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    Bimbo Sperduto

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    Aveva calcolato a lungo le coordinate per quel salto. Sull’altopiano si arrivava percorrendo una salita dolce, lungo un sentiero ben curato circondato da erba e fiori, ma pochi alberi. Pochi alberi c’erano anche lungo il pendio che, più bruscamente, correva giù fino a valle: una condizione ideale per il suo volo. Il ragazzo ripiegò un lungo pennone in metallo tinto di bianco opaco; sulla cima era fissata una strana elica a quattro pale, dal profilo sinuoso. Ancora volteggiava, stuzzicando un circuito all’apparenza piuttosto intricato. Il giovane racchiuse quell’arnese all’interno di uno scompartimento del suo velivolo leggero: si trattava di un mezzo evidentemente progettato per un singolo pilota, con due parapetti di protezione, un sistema (piuttosto primitivo, se confrontato con il resto) per l’ancoraggio dei piedi e un meccanismo simile a una cloche, che dava l’impressione di essere molto robusto.

    Il decollo fu semplice: la brezza della valle di Chediya sembrava non aspettare altro. Il vento lo fece dondolare e, prima di azzeccare la corrente giusta, all’aviatore sembrò di trovarsi in mezzo a un mare indispettito. Ma quel posto era perfetto per far pratica, perché era la stessa aria a trasmettere un senso di pace e di calma; dopo un inizio un po’ barcollante, il mezzo si assestò e proseguì il suo volo silenzioso. Sembrava privo di peso.
    A un occhio attento non sarebbero sfuggite le modifiche effettuate sulla parte superiore dello scafo: si intravedevano ancora i segni delle forature – ora debitamente tappate, per evitare problemi di aerodinamica – che dovevano servire a sostenere una qualche struttura superiore. Solo un abitante dell’altopiano della tempesta avrebbe però intuito che cosa, un tempo, doveva essere stato collegato a quel piccolo mezzo di trasporto.

    Accidenti!
    La voce del ragazzino schizzò via in un attimo, trascinata dal vento che ora sferzava la sua faccia e gli toglieva il fiato. Stava sorvolando uno dei corsi d’acqua che spezzavano il verde della valle, quando gli occhi gli caddero su una figura umana che sembrava trascinarsi a fatica fuori da quel fiume. Intuendo che c’era qualcosa che non andava, l’aviatore planò delicatamente, disegnando in cielo dei cerchi sempre più stretti per poi atterrare con dolcezza – mostrando una certa padronanza del mezzo, nonostante la giovane età – sul manto d’erba.

    Ehi! Ehi! Ehilà! Tutto bene?
    Disse, con voce preoccupata e a tratti spezzata dal fiatone, mentre saltava giù dal velivolo. Corse verso l’uomo, togliendosi il copricapo in pelle marrone, sul quale erano state fissate delle lenti e due filtri per l’aria. La tuta che indossava sembrava, come il mezzo che pilotava, modificata: un tempo doveva aver avuto molti più strati, ma conservava una gran quantità di tasche e taschini. Il ragazzo non dava certo l’impressione di sapere molto bene come comportarsi, in materia di primo soccorso; si tolse i guanti in fretta e furia, ma rimase a guardare quell’estraneo con l’aria di chi vuole davvero far qualcosa, ma ha paura di combinare un pasticcio.
    Io… io”, balbettò, mentre con gli occhi qualcuno in grado di aiutare sul serio quel poveretto, “tu… tu! Come sei finito qui? Hai bevuto acqua? Riesci a respirare?
     
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    Tra il sonno e la veglia, in bilico.
    Rimani aggrappato.
    Scava con le dita, la presa non perdere.
    Un tonfo.
    Un secondo, e un terzo, fino a perdere il conto.
    Il mio sterno sbattuto dalla risacca.
    Polmoni d’acqua. Fiumi infiniti.
    Deliri a occhi aperti.

    Ora un’ombra si disegna nel cielo.
    Vortica, fulmina, s’arrampica m’assale.
    Non perdere la presa.
    Respira.
    Una voce dolce, un soffio nelle orecchie.
    Il vento che mi culla.
    Il vento che l’ombra dolcemente accomoda a terra.
    Leggiadra e sicura. Elegante.
    La presa. Non perdere la presa.

    Bestia strana e luccicante. Affusolata e metallica.
    Mai, prima di ora, qualcosa di simile.
    E vomita fuori un uomo.
    Sembra innocua.
    Lui un po’ meno. Si sbraccia agitato e costernato.
    Corre, si avvicina. La tuta che lo avvolge poco a poco se ne libera.
    Il copricapo, i guanti, la strana maschera.
    Non un uomo. Un ragazzo. L’età, più o meno la stessa.
    Respira.

    Il ragazzo parla. Kranathar si accarezza la pelle.
    Il blu che ora sopravanza il viola dopo quell’eternità acquatica.
    Suoni che escono sconosciuti. Parole incomprensibili.
    Vibrazioni nell’orecchio.
    Capogiro.
    Ripercussioni.
    Poi quelle parole si riallacciano.
    I suoni si ricompongono.
    Respira.
    Che cosa sta succedendo?

    Esattamente quello che anche l’altro gli sta domandando.
    Torrente d’ansia.
    Quasi fosse lui il più smarrito dei due. L’uomo sceso dal cielo.
    Una puntura nel cavo della mano destra.
    Qualcosa che preme per uscire.
    Non perdere la testa.

    Quella strana bestia metallica, ferma e immota.
    L’agitazione palese, incisa nel volto.
    La giovane età. (La più ambigua delle assicurazioni.)
    Kranathar decide che se quella è una trappola, il ragazzo è davvero uno splendido mentitore.
    Un mentitore morto, si promette.
    Scruta i dintorni. Poi lo fissa con i suoi occhi gialli.
    Tutto in sé è in rivolta. Si sente le ossa al posto del cervello e i muscoli ballare sulle budella.
    Domande cementificate in gola. Il morso vertiginoso della paura.
    Il pungolo alla mano che non mi molla.
    La presa. Non perdere la presa.
    Cerco di tirare fuori lo sguardo più fermo di cui dispongo.
    Di inchiodare questo singolo istante al movimento incessante del mondo.
    Non è il momento di avere paura.
    Mài.
    Inspira.
    Lo guarda.

    «Siamo al sicuro, qui? Né Belve né Preti hanno certo paura dell’acqua.»

    È solo un ragazzo.
    Fragile. Preoccupato.
    Assetato di certezze.

    Proprio come me.
    In bilico.



    Edited by Zenone - 29/8/2021, 12:51
     
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    Sicuro? Qui? Beh…
    Il ragazzo si guardò ancora una volta intorno; nessuno in vista, almeno per il momento. Si trattava di un’area particolarmente selvatica della valle e, sebbene lì soffiasse al pieno delle sue forze il dolce canto del vento, sapeva abbastanza cose riguardo alle terre orientali da riservare un piccolo spazio per l’inquietudine, all’interno del suo cuore.
    La valle di Chediya è perlopiù sicura, ma è comunque meglio raggiungere un posto abitato al più presto.
    Si passò la manica sulla fronte per asciugare il sudore, che scendeva sulla pelle pallida, qui e là arrossata per il caldo – la tuta che indossava era pesante, per resistere all’aria fredda. Con le mani cercò di sistemarsi alla meglio i capelli rossastri, che dovevano aver perso di vista forbici e rasoio già da un po’, mentre pensava a quale potesse essere la meta più vicina; sarebbe stato semplice raggiungere la periferia più esterna di Istvan, volando verso sud per un’oretta ancora. Doveva solo ricaricare un po’ il suo mezzo, per evitare che il peso aggiuntivo di quello sconosciuto gli creasse problemi.

    ...sconosciuto?
    L’aviatore si fermò a pensare, per la prima volta da quando era cominciata quella sconclusionata operazione di soccorso, a chi aveva davanti. I suoi occhi scuri e lucidi scrutarono il corpo dello straniero; dovette sforzarsi di mantenere il controllo su sé stesso per non sobbalzare. Certo, non era la creatura più strana che avesse mai visto, ma la carnagione violastra, le corna e la coda lo colsero di sorpresa, soprattutto perché fino a quel momento non ci aveva badato.
    Era sicuro che il suo volto avesse tradito, per un attimo, questo stupore e si sentì in colpa. Allo stesso tempo però si domandava se fosse saggio far salire sul suo mezzo una creatura di cui non sapeva nulla. Si domandò come si sarebbe comportato suo padre; suo padre, si disse, non si sarebbe neppure fermato – non per cattiveria, ma perché troppo preso dal volo. Ma sapeva, in cuor suo, che suo fratello non lo avrebbe mai perdonato se si fosse azzardato ad abbandonare lì una persona in difficoltà.

    Si scrollò di dosso i pensieri e tornò vicino al suo velivolo; si mise ad armeggiare con qualcosa, prima aprendo lo sportello e poi cominciando ad assemblare – con una rapidità notevole, che rivelava un’ottima padronanza di quelle pratiche e di quegli attrezzi – quello stesso palo che, alla partenza, aveva smontato e riposto. Mentre ricollegava i circuiti disse allo sconosciuto:

    Adesso sistemo il mio mezzo e poi ti porto via di qui. Andiamo verso la città, così sarai al sicuro e un dottore potrà vedere se è tutto apposto! Va bene?
    Si fermò, riprese il fiato e poi aggiunse, con l’aria di chi si era dimenticato qualcosa di fondamentale:
    Io comunque sono Pierre, piacere!
    L’elica sulla cima del pennone prese a ruotare e il mezzo vibrò, come rinvigorito da quella spinta dolce, mentre delle luci sotto all’ammasso di cavi collegati dal ragazzo si accendevano in sequenza, rivelando che il velivolo metallico era tornato operativo.
     
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3 replies since 8/8/2021, 08:54   106 views
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