Il Ciclo della Rinascita

Censimento

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    Viaggiatore dei Mondi

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    Prego che gli Spiriti possano mitigare l'angoscia del vostro cordoglio,
    donandovi solo il ricordo degli amati defunti e la solenne fierezza che vi deriva
    dall'aver deposto un così costoso sacrificio sull'altare della Libertà...

     

     

    jpgLe ombre della sera iniziavano ad allungarsi al cospetto dei falò, delle lanterne, e di ogni fioca fonte di luce rimasta ancora accesa a sfidare l'arrivo della notte, espandendosi ed intrecciandosi come una creatura viva e tentacolare, pronta a intessere sugli accampamenti degli eserciti Alleati e le carovane in partenza da Sequerus una quieta cappa fatta di tenebra e silenzio... come una coperta al cui abbraccio consegnare i propri stanchi corpi martoriati dalla battaglia e seppellire i tormenti di orribili ricordi, o come l'oscuro petto di una madre in cui mormorare i pensieri più dolorosi, soffocando i singhiozzi e nascondendo i volti rigati di lacrime.

    Il sole che aveva accolto la liberazione del Presidio aveva benedetto con la sua luce la forza d'animo dei sopravvissuti, lasciando che la loro voglia di ricominciare a vivere, di tornare a casa dalle proprie famiglie, di essere finalmente di nuovo umani a prescindere dalla razza di appartenenza, alimentasse di nuova energia le membra provate dallo scontro fratricida (e solo gli dei -se solo ve ne fossero stati, su Endlos- sapevano come e quanto le genti dell'Ovest avessero bisogno di quella determinazione!), ma... ora che il cielo -imporporato dal tramonto- s'era tinto di toni sempre più foschi e freddi, non restava altro da fare che attendere l'indomani. E riflettere. E ricordare.

    La battaglia per la Città dei Cinque Picchi era terminata, e con essa la Guerra Civile che aveva per lunghi anni insanguinato le lande d'Occidente, ma ciò segnava non la fine, bensì un nuovo inizio: la luce del giorno aveva visto i vincitori indaffarati nello svolgimento di operazioni che non potevano attendere, e così prestare le cure necessarie ai prigionieri, accudire i feriti, aiutare i soccorsi, assistere i guaritori, stabilire come ripartire gli incarichi, e mettere agli arresti i sostenitori del regime degli Usurpatori era stato un buon modo per reagire...

    ...ma le ferite che erano state inferte a quelle terre e ai suoi abitanti non sarebbero svanite mai: i detenuti dell'Enclave, che erano stati usati come cavie da laboratorio per chissà quali test, non avrebbero mai dimenticato la prigionia, così come i soldati non avrebbero mai smesso di sentire sulle mani il sangue dei loro fratelli... corrotti da ideali malvagi di uomini empi, privati di saggezza e discernimento da mostri fatti di elettricità e metallo, ingannati da Kami oscuri e pericolosi, e -infine- rapiti dai demoni. Nell'accezione più letterale possibile.

    Le storie dell'antico folklore avevano un termine per casi inquietanti e inspiegabili come quelli verificatisi in massa all'indomani del conflitto, ma... un tempo, il mito degli “Onikakushi” veniva utilizzato per giustificare i casi di persone scomparse in circostanze misteriose: quando qualcuno si perdeva nella natura ostile, o svaniva nel nulla senza venir più ritrovato, il popolino diceva che erano stati gli Oni -i demoni- a rapirlo, e per quanto quella concezione fosse stata ampiamente superata nel corso del regime dei Governatori, ora tornava a vivere, più reale e concreta che mai...

    Dopotutto, che altra spiegazione poteva esserci? Gli uomini dell'Enclave che non erano stati abbastanza coraggiosi da trovare morte in battaglia o da praticare il seppuku, e che si erano consegnati agli Alleati come prigionieri in cerca di clemenza, erano stati rinchiusi in celle sorvegliate da guardie di diverse fazioni in attesa di ricevere giudizio... e nell'arco di una notte erano letteralmente svaniti nel nulla. Scomparsi senza un lamento e senza un segno.

    Lo stesso Kikio Ho -leader degli Usurpatori- e Namas -eroe ed emblema della Resistenza- avevano subito stessa sorte: testimoni oculari riferivano di aver visto i Kami manifestarsi in forma umana per portarli via... e nessuno dei due era più stato visto. Né vivo, né morto. Svaniti nel nulla. Certo, i più scettici e razionali avrebbero di certo potuto trovare più di una spiegazione logica alternativa, ma...

    Tutti coloro che erano stati presenti all'ultima battaglia, a prescindere dai loro poteri e natali, avevano visto con i loro occhi quel che era accaduto: le anime dei morti erano state risucchiate in cielo dalla fenditura oscura che era comparsa sopra il Picco della Memoria, e sebbene ora non fosse più così nitida all'occhio dei mortali, quella ferita nella realtà era ancora lì... e da lì riversava il miasma di un'aura nefasta ed opprimente, avversa alla vita, che aveva costretto i civili a prendere la sofferta decisione di abbandonare le proprie dimore di famiglia, trasformando la capitale nello spettro di sé stessa.

    jpg

    Tutti i mistici -di ogni estrazione e Presidio- dicevano di poter vedere coi loro occhi la negatività che opprimeva quel luogo, ma non servivano i loro poteri per sentire anche solo a livello inconscio l'influenza di quella forza maligna e che qualcosa di terribile vi era avvenuto: ad eccezione del Picco della Memoria (paradossalmente, il vero fulcro di quella emanazione), dove i pressi della Stele costituivano un'oasi di relativa calma, nessuno poteva più abitare lì... e Sequerus si era svuotata del tutto nell'arco di due giorni, divenendo -di fatto- una città-fantasma.

    La popolazione -caricati i pochi beni che erano rimasti loro su qualche carretto-, aveva iniziato una lenta migrazione verso altre mete: i più stanchi e i più ottimisti si erano diretti verso le coste di Undarm, rincuorati dalla promessa degli ex-Samurai che erano stati fedeli ad Odayaka Mira di trovare in quei luoghi la tranquillità per poter ricominciare a vivere, tra le braccia di una Natura generosa, non più oppressa dai fumi e dai liquami della Sorella Nera, andata distrutta; i più agguerriti e in cerca di riscatto si erano uniti alle squadre dei Ronin -guerrieri rimasti senza padrone-, che avrebbero percorso l'Ovest per prestare soccorso alla popolazione, per questa o quella causa, talvolta come mercenari, talvolta come anonimi eroi...

    I più turbati avrebbero cercato un nuovo equilibrio nella meditazione e nella preghiera, decidendo di abbracciare il credo degli Hamunhasses, di lasciarsi alle spalle le loro vecchie identità , e di aderire a un qualche ordine monastico... mentre i più disperati -quelli che erano rimasti soli, quelli che non avevano più nulla, quelli che sentivano di non poter più rimanere- si erano messi in viaggio con gli eserciti degli Alleati forestieri per cercare un qualche futuro in un altro Presidio.

    ...alla fine, non faceva comunque differenza. Quale che fosse il luogo, quali che fossero circostanze e situazioni, tutti avrebbero dovuto affrontare la stessa sfida e le stesse difficoltà: molti dei Grandi Signori erano caduti, alcuni casati si erano estinti, altri avevano perso potere, influenza e terre, e nuovi poteri -c'era da immaginarlo- sarebbero presto sorti... il mondo che conoscevano era caduto e si stava rinnovando, e sia che fossero rimasti ad Ovest, sia che fossero migrati altrove, niente sarebbe più stato come prima.

    Prima che anche l'ultimo gruppo lasciasse Sequerus, i mistici di ogni fazione -presenti fino all'ultimo a supervisionare l'evacuazione- avevano contribuito con i loro poteri ad accendere una lanterna nella vasta e vuota piazza del Picco del Forte, perché in questo modo sarebbe durata per lungo tempo, da lì sarebbe stata visibile anche a grande distanza, e... sarebbe stato il segnale dell'inizio della Cerimonia.

    Se la speranza nella Libertà aveva sostenuto i loro passi alla luce del giorno, a quella malinconica delle stelle e della luna i reduci avevano deciso di consegnare la tristezza del loro cordoglio; non sarebbe stato un evento fastoso da celebrarsi -poiché la dignità era un ornamento solenne da indossare nel silenzio-, ma numerosi e dolorosi erano stati i lutti del Presidio Occidentale, e i suoi popoli non avrebbero lasciato quel ricordo nell'ombra, a perdersi nel buio...

    In memoria di coloro che erano defunti, delle anime rapite, degli uomini scomparsi, delle vite spezzate o stravolte per sempre, tante piccole luci sarebbero state liberate nelle tenebre: la gente della costa avrebbe fatto scorrere sull'acqua piccole barchette giocattolo -di legno o di carta-, osservando le flebili fiamme delle candele a bordo allontanarsi verso il nero misterioso confine del Void; le carovane, avrebbero lasciato le loro lanterne lungo le vie, perché gli spiriti vaganti e i viandanti solitari non perdessero il sentiero, e gli abitanti accampati o ancora in viaggio avrebbero lanciato nell'aria lanterne fluttuanti per rischiarare la notte.

    jpg

    Perché la speranza è un fuoco che divampa, una fiaccola che si alimenta passando di mano in mano, ma la consapevolezza è un talento che a caro prezzo si acquisisce, e perpetuarla nel tempo con il ricordo è il solo modo di farne tesoro... perché quella luce non si spenga
    Mai Più.

    icon-tsubaki-10

    Censimento del Presidio Ovest
    La Guerra civile che ha dilaniato l'Ovest è infine terminata con la deposizione del regime dei Governatori, e mentre il Presidio già inizia la sua lotta per ricostruire sé stesso, i pensieri dolorosi e i sentimenti di cordoglio in cui non si è potuto indugiare alla luce del giorno trovano finalmente forma ed espressione al calare della notte: si tratta di un corteo di luci liberate sulle acque di Undarm e nei cieli di Sequerus per ricordare tutte le vite che si sono invece crudelmente spente dal conflitto.

    I Cinque Picchi sono ora permeati da una nefasta ed opprimente aura maligna, che non permette più alle persone ordinarie di vivere lì, e così i sopravvissuti sono costretti ad abbandonare le loro case, organizzandosi in carovane per mettersi in cammino verso altre destinazioni; anche Voi potreste essere tra loro... od ovunque altro sul territorio del Presidio, contemplando questa oscura notte accendersi di luci, e presenziando alla morte e rinascita dell'Ovest.

    Chiunque volesse partecipare è invitato a postare un solo intervento per ogni personaggio che sia stato coinvolto nelle trame di “Aurora Occidentale” [Link], narrando la propria testimonianza; lo stesso possono fare i personaggi estranei alla campagna che hanno però intenzione di abitare d'ora in avanti stabilmente il Presidio Ovest, e prendere parte alle sue storie.

    Sebbene il post sia una narrazione a sè stante, se avete in mente azioni di una certa portata -che eccedono cioè l'interpretazione del proprio personaggio e di qualche PNG- siete pregati di chiedere l'autorizzazione in Bacheca [Link]

    Il presente topic resterà aperto fino al 7 maggio, ed oltre solo in caso di esplicita richiesta allo staff.


    Edited by Madhatter - 8/4/2017, 14:37
     
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  2. Shui Yoe Tu
     
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    Arrivò, come l'ultimo sasso della frana, pure la fine di quella guerra ad Ovest, che a fratelli aveva opposto fratelli, e il sangue versato era lo stesso, ma attossicato dall'odio dell'una mente contro l'altra. Ahi quanto è doloroso, con la rabbia e la spada trafiggere l'amico! L'acredine di molti anni vissuti col pregiudizio s'era spaccata, rivelando l'orrore di un'infezione corruttrice; così si lavava il sangue col sangue,
    e l'odio con l'odio, finché le mani non sradicarono l'albero malato, e bruciarono i semi del male. Però la terra ormai piange ferita, e al grande disastro era seguito un dolore peggiore, come se la mano non fosse del contadino, ma di qualche mostro invasore: tale era la condizione di Sequerus, liberata dalla guerra; silente, soffocava sotto un velo maligno senza nome, e le anime erano rapite nel gorgo invasore, e chi aveva lasciato la vecchia capitale, ora la vedeva morire da lontano. All'odio era seguito il pianto, alla morte il silenzio: perché, cose l'ultimo sasso della frana completi il disegno della terra, e schiacci l'ultima pianta, così pure porti l'aria muta, perché nulla più si muove, dopo il frastuono della caduta; pure, la terra è sempre inquieta, e dentro risuona ancora dell'urto, e mentre il muschio cresce sulle rocce morte, nuove cose si preparano al di sotto, nel cuore del mondo. Perché tale è la vita e il destino dei popoli, che ciascuno sopraffaccia l'altro, e cresca e muoia sui ricordi del passato, a volte con rispetto a volte brutale: nulla, che sia nel mondo, è fatto per durare, e gli immortali, quando non vengono uccisi, sbiadiscono al suono del tempo che li copre d'oblio, e la dimenticanza è la peggior morte.
    Coloro che sono stati colti dal vortice di quella guerra sanguinosa, non verranno dimenticati: su di essi si fonderanno le nuove civiltà, il sangue nutrirà nuove piane e nuovi fiumi, perché non tutto ciò che sia stato fatto a danno, tale rimanga per sempre; dalla morte nascerà la cvita nuova.
    Ma non a Seuquerus.
    La capitale soffoca sotto il peso di quella condanna oscura, e chi sa se mai giungerà il tempo in cui possa essere sanata, e quante e quali cicatrici porterà con sé, se sarà abitata ancora, e se riderà sotto un sole nuovo.
    Allora ecco che, mentre sul mare le barche galleggiavano luminose, e nella commozione del silenzio ciascuno piangeva per sé e per gli altri, sotto le stelle del cielo della Capitale, velato dall'oppressione di quel male sconosciuto, l'albero secco e spoglio nei vecchi giardini dell'Alfiere riprese vigore: quell'albero era un ciliegio, un dono da parte della Seconda Guardiana alla dolce Mio Aranwë quando, la prima volta di molti anni prima,
    andò a recarle omaggio; piantato dalla fanciulla, era cresciuto sano e forte, come se un anno avesse contato per venti, e sempre fioriva, non solo il primavera, di fiori rosa, ma pure nel giorno anniversario di quella visita dove, fra i petali di ciliegio, sbocciava una delicata magnolia.
    Ora il bell'albero era secco e vecchio, poiché era legato alla vita dell'Alfiere, tanto che quando quella venne meno, del pari il legno marcì e si spense, e nessuno più vide i bei fiori degli Aranwë, figli dell'unica pianta davvero verde in quel presidio arido e solo.
    E dunque, come si diceva, il ciliegio riprese pian piano vigore sotto le stelle invisibili, e lentamente, combattendo con l'aria malsana, cominciò a germogliare, un fiore per volta, nei vecchi cortili abbandonati e stanchi; quando l'oscurità del cielo raggiunse le ore più fonde, ecco che era completo, e nel grigio silenzio di Sequerus si affacciava quell'unico colore vivo, del rosa di molti e molti fiori, timidi e reverenti: il giorno successivo, infatti, al sorgere del sole, cadeva l'anniversario di quell'incontro. Nel ricordo di Mio Aranwë, la guerra finì come era cominciata, e parve che, come la natura s'era intristita alla dipartita di lei, così ora rinasceva per darle saluto e omaggio, a lei, prima vittima dell'odio.
    E chiunque avesse osato inoltrarsi per la morta città, e raggiungere gli spogli cortili, avrebbe veduto l'albero fiorito combattere per la propria sopravvivenza, schiacciato, piccolo dono della natura, dall'aria infame che aveva preso ad attanagliare la Capitale.
    Cos'era, dunque, quel miracolo? Era il segno che la vita cova sotto la terra, e pure la si schiacci, questa sempre rifiorisce, e nei figli nuovi serba il ricordo dei genitori e degli antenati, sì che il futuro sa riflesso del passato, e ammonisca i poteri a non commettere gli stessi sbagli. Così l'albero era rifiorito nel ricordo e nell'amore di Mio Aranwë, e per alcuni mesi restò tale, ogni giorno perdendo qualche petalo, come piangesse la morte dell'Alfiere e degli eroi, e avesse compassione e dolore per gli assassini.
    Passati che furono alcuni mesi, quando anche l'ultimo petalo sfiorì e cadde a terra, allora si vide che, nel cuore del legno, era sbocciata una magnolia; al levarsi di un dolce vento, i petali salirono nel cielo, e piovvero sulla città, ultime lacrime di un lungo compianto, ma la magnolia no.
    Si dice, infatti, che quelli che ebbero la fortuna di vederla volare, questa non ricadde in terra, ma veleggiò nel vento verso meridione, verso il Bosco che era pronto a fiorire di nuovo.

     
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    ~skekDor "il mezzo-Mistico"~

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    Niente di lieto era rimasto, sulla terra ancora macchiata del sangue dei mortali che avevano preso parte alla funesta guerra. Le ombre della notte presto si disciolsero, e i raggi solari illuminarono il territorio vessato da sciagure e colpe terribili, scoprendone l'arcano e rendendolo visibile ai più.
    I sopravvissuti piangevano e gridavano il loro dolore al cielo, altri festeggiavano il ben magro compenso ottenuto dalla sequela di eventi che avevano portato alla caduta di Kikio Ho. In mezzo al caos di corpi che si muovevano scoordinati, ognuno diretto verso una meta diversa, ve n'era uno che invece era rimasto stoico nello stesso punto. Motore immobile dell'epilogo della crociata, skekDor era stato il primo a raggiungere gli appartamenti del capo di quella marmaglia. Aveva superato la soglia d'ingresso malconcio e sporco, ardente di desiderio di morte. L'umano, però, gli era stato sottratto poco prima che potesse cibarsene.
    A niente gli era servito scendere giù per il Mastio, e calcare la terra insozzata dei cadaveri dei nemici sconfitti.
    A lungo aveva gridato la sua rabbia, maledicendo se stesso per non aver agito tempestivamente, così come il nome della creatura che s'era palesata di colpo, portandogli via la sua preda. Un kami, così l'avevano chiamato. E per quel che skekDor poteva saperne, quella parola poteva significare tranquillamente "guastafeste".
    Una notte intera era trascorsa da quando, stoico, s'era messo a inveire verso il nulla. E quando il sole finalmente sorse, ben pochi soldati s'erano ancora trattenuti attorno a lui. Si rifocillò di nuove forze, attingendo l'energia direttamente dall'astro del giorno, e frattanto centellinò il suo bisogno di vendetta, lo conservò come si farebbe con una buona confettura, deciso più che mai ad assaporare quel dolce nettare, non appena avesse potuto stringere le zampe attorno al collo di Kikio Ho.
    Presto, si celebrarono rituali per i caduti e i più s'accomiatarono. L'Ovest era diventato invivibile, e chi poteva migrava altrove.
    Non skekDor, però. A lui quel miasma di morte non dava poi tanto fastidio. Anzi, era un monito in più che lo spingeva a procedere per la sua strada, a non darsi per vinto.
    Aveva ancora una strada da battere. L'anima di Kikio Ho: l'aveva avvertita, ne ricordava perfettamente la vibrazione. Allo stesso modo, il gran mucchio di spiriti che erano usciti dai corpi dei soldati nemici e radunati dallo strambo turbine comparso fuori dal nulla proprio al culmine della battaglia avevano lasciato una traccia indelebile sul territorio, seppur lieve.
    Era più di quanto servisse a skekDor. Il mezzo-Mistico s'armò di pazienza. Aveva tutto il tempo del mondo per fare il segugio, e lungo il cammino avrebbe trovato di che sfamarsi. Lo strano miasma rendeva l'ambiente invivibile per buona parte dei mortali, e sovente gli capitava d'incontrare morituri e creature ammalate.
    Impietoso nella sua misericordia, poneva fine alle loro sofferenze e, al contempo, s'alimentava dell'essenza vitale che un tempo aveva tenuto insieme i loro corpi.
    Tutto, per lo scopo che s'era prefissato.
    Non c'era dunque da biasimarsi se, raggiunta infine la Stele del Picco della Memoria, la sua prima reazione dopo giorni di completa atarassia fu di maledire di nuovo il nome di Kikio Ho.
    Perso, sparito. La traccia finiva lì. Eppure, era da quelle parti che il miasma sembrava aver preso forma. Lo Skeksis ne aveva certezza: la strada battuta era quella corretta.
    Eppure, l'aura spiritica si spegneva lì.
    Dubbi e interrogativi gli si alternavano ora nella testa. Ma sapeva bene che l'Ovest non poteva rimanere in quello stato. E poiché agli uomini di rado succede di perdonare un grave torto -Questo l'aveva imparato bene-, ebbe la certezza che la soluzione migliore forse risiedeva... nell'attesa.
    Prima o poi qualche altro folle avrebbe trovato tracce fresche di Kikio Ho, o magari del kami impiccione. skekDor avrebbe semplicemente dovuto tenere le orecchie ben tese, e prolungare la sua permanenza nel Presidio Ovest.
    Niente di più facile, visto e considerato che aveva più d'un progetto ad attenderlo, in quei lidi...

    Salute: 100%
    Energia: 110%
    Classe: PRIMARIE: Elementalista - Avatar - Trickster

    Armamentario:

    - Frammento del Grande Cristallo:
    Si tratta di una minuta porzione, della grandezza d’una mela, del Grande Cristallo originale. Il colore ricorda quello dell’ametista, anche se le tonalità variano considerevolmente a seconda dell’ora del giorno e dello stato mentale di skekDor. Normalmente si trova all’interno del corpo dello Skeksis, il quale lo vomita fuori solo nel caso in cui dovesse bagnarsi nei suoi raggi curativi. E’ un oggetto che può venire utilizzato solo dalle divinità: nelle mani di un qualunque mortale apparirebbe come una semplice pietra preziosa.
    La scheggia del Grande Cristallo erige inoltre naturalmente un velo invisibile tutto attorno al corpo dello Skeksis, la cui robustezza è equiparabile a quella di una corazza pesante. Ogni colpo portato a questa protezione evanescente produce sprazzi d’energia violacea. Qualora la barriera dovesse cedere, le zone di frattura diverranno visibili a occhio nudo e, fino a completa rigenerazione del potere, non sarà possibile innalzarne un’altra

    - Caesti eterei:
    Qualora la situazione lo richieda, skekDor attinge al potere del Grande Cristallo per ricoprire mani e avambracci di vispe zaffate di mana fluorescenti nel verde, che ricordano nella forma dei guanti da combattimento avvolti dalle fiamme. Queste insolite armi hanno la resistenza dell'acciaio e, a ogni colpo portato, lasciano dietro di loro una scia eterea che scompare dopo pochi secondi (La scia è scenica e non ha consistenza). La gittata dei colpi è di circa un metro da ciascun avambraccio di skekDor

    Passive:

    - Semi-immortalità (Passiva):
    L’organismo di skekDor non è dissimile da quello di un cadavere che cammina. Non ha realmente bisogno di nutrirsi, a eccezione dei raggi assorbiti dalla luce solare rifratta sul frammento di Cristallo nero. In alternativa, può assorbire le anime dei vivi come sostentamento. Può provare dolore, ma mai fatica. Nella sua nuova forma, skekDor può esser ferito gravemente, ma non ucciso [Abilità Passiva – Immortalità + Resistenza all’esaurimento delle energie]

    - Signore del Cristallo:
    Il frammento del Grande Cristallo consente allo Skeksis di accedere a una fonte pressoché inesauribile di potere e di evocare i suoi incanti in maniera istantanea.. Inoltre, skekDor ha la capacità di accorgersi di essere oggetto di eventuali intrusioni mentali. Infine, la barriera naturalmente prodotta dalla gemma difende il suo padrone anche dalle emozioni indotte dagli avversari più meschini [Abilità Passiva - Aumento della riserva di mana del 10% + Instant Casting + Mindfuck-Alert + Difesa dalle malie]

    - Potere Passivo di Classe Elementalista:
    L'acqua non intacca il corpo di skekDor in alcun modo. Il mezzo-Mistico potrebbe ad esempio rimanere in un torrente per giorni interi senza risentire di alcuna conseguenza relativa al lungo periodo di tempo trascorso in ammollo. Inoltre, (non respirando affatto già di suo) può restare in apnea quanto desidera [Abilità Passiva – Immunità scenica all'acqua]

    Tecniche utilizzate:


     
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    La tenebra che avvolgeva il Presidio Occidentale quella notte parve insopportabilmente fitta agli occhi degli uomini, forse perché era la stessa che impregnava e accecava i loro animi. Così poco importava se i passi arrancati fossero mossi da tenacia o inerzia: impavidi e codardi si trovavano accomunati, in quel momento e per sempre, dalla distruzione che la guerra aveva lasciato dietro di sé.
    Eppure alta nel cielo e sulla superficie marina si levava la Speranza, rappresentata dal fuoco d’innumerevoli candele che volavano o galleggiavano per le coste dell'Ovest. Al pari di un urlo silenzioso e ribelle verso l'indifferenza degli Dèi e la malvagità dei Kami, per i quali i mortali non erano che formiche e le atrocità che costellavano le loro storie erano poco meno di una pantomima.

    In questo triste raccoglimento le dita diafane di una fanciulla si strinsero con maggior forza attorno alla cera di una candela. Rabbia e malinconia riaffioravano nel suo cuore mentre una lacrima scivolava fino a perdersi fra le onde gelide che ne lambivano le caviglie. La donzella si sorprese a riflettere su come quella potesse essere un'allegoria della vita: ogni persona era un frammento di qualcosa di più grande, un immenso oceano che li conteneva. Eppure il valore di ognuno di loro -gli essere umani- e anche di lei -meno umana- era inestimabile.

    Diversi colori, tradizioni e, soprattutto, volontà.

    Lo sguardo d'onice si perse nel vano tentativo di ritrovare quella goccia che le era appartenuta. Quando la giovane si rese conto che - come molte cose nella vita - ciò che fu non sarebbe più stato, si sentì vicina ai superstiti dei Cinque Picchi.
    A quel punto Narhella lasciò andare la fiamma che custodiva fra le mani e, senza badare che essa venisse inghiottita dal mare, raccattò qualcosa di tondo e argenteo sulla sabbia per poi correre sul pelo dell'acqua come una ninfa. Il cammino della ragazza s'arrestò solo quando fu sufficientemente lontana dalla costa, ma abbastanza vicina da poter esser vista dalle anime sofferenti che l'attraversavano. Le braccia puntarono al cielo stellato ricoperto da lanterne volanti, il cerchio di metallo chiuso nella mano ora guantata e protetta.
    Una melodia risalì l'abisso liquido sotto di lei (o forse stava accadendo solo nella sua mente): si trattava di una sinfonia di percussioni e violini che in passato la fanciulla aveva suonato e danzato molte volte, e quella sera per lei non sarebbe stato diverso.
    Il Giullare si sarebbe esibito per alleviare le sofferenze, sorprendere e alleggerire gli spettatori.

    L'hula hoop iniziò a volteggiare sul palmo sinistro per poi venir afferrato e rincorrere la mano destra che andava a scontrarsi con le onde per tenere il corpo in verticale. Un movimento elegante dietro cui si celava potere ed estremo equilibrio, dopo il quale la fanciulla formò un ponte. Gli occhi scuri si riempirono d'indecisione e salutarono le stelle che, nonostante la sofferenza, non avevano smesso di brillare, poi si posarono sui presenti che l'ammiravano dalla riva. Una volta che l'acrobata fu nuovamente retta dalle sue gambe il cerchio fu posto sopra il suo capo da un braccio teso verso l'alto.

    Un piede ondeggiò con nervosismo increspando la superficie della fontana al fine di cancellare l'immagine riflessa. Benché Jester avesse già compiuto quattordici anni, il suo aspetto era quello di una bambina di otto e ciò la faceva imbestialire.
    Era colpa anche di quello se era finita là!

    — Come immaginavo, non sa “camminare”, di Selvatica non ha nemmeno questo!

    Fu la sentenza della donna dai lunghi capelli biondi che non si rivolse direttamente al Giullare bensì a una altrettanto alta figura dalla chioma argentea. Quest'ultima guardava la scena con aria disgustata da sopra il cornicione di marmo.

    — Non avevo dubbi.

    Esordì mentre la più giovane si limitava a far silenzio e fissare la bionda che danzavano sopra l'acqua.


    L'attrezzo scivolò roteando attorno al braccio e poi alla vita della fanciulla finché non rimase a girare stabilmente sulla caviglia sinistra. A quel punto la Selvatica iniziò a saltellare fra le onde come uno spiritello allegro e spensierato, ma in realtà era concentrata a non inciampare sulla lama affilatissima dell'arnese. Quando poi entrambi i piedi furono all'interno della sua circonferenza le mani protette della ragazza lo tirarono su -ancora una volta attorno a lei- mentre volteggiava su sé stessa. A quel punto Narhella lanciò il cerchio in aria e, dopo una capovolta dove per alcuni secondi si ritrovò con la testa completamente immersa nell'acqua salmastra, si esibì in una verticale all'indietro. Rimanendo in quella posizione instabile agganciò l'hula posizionando una gamba al suo interno. Mentre questa toccava “terra” e l'altra la seguiva, le dita della giovane si richiudevano sull'acciaio che le risaliva per il busto. Il secondo tallone che aveva lambito il mare iniziò a sprofondare.

    Una mano attorno all'orecchio teso all'ascolto: così la vecchia Hunter musicale, nonché insegnante all'Accademia, veniva ricordata dai suoi studenti.

    — Riuscite a sentirlo?

    Chiese l'anziana mentre le matricole annuivano. Il compito era quello di capire se il volontario offertosi come cavia stesse mentendo o meno, la diagnosi doveva esser stabilita attraverso l'ascolto dei battiti del suo cuore. In classe tutti si affrettavano a scrivere prima della fine dell'ora ma il foglio di Jester era bianco… lei non sentiva niente.


    Con un sorriso raggiante e un nodo in gola il Giullare si lasciò cadere seduta fra le onde mentre le gambe s’immersero fino alle ginocchia: tenere una superficie maggiore sul liquido la aiutava a mantenere stabile il nen. Nel frattempo il cerchio danzava verticalmente fra i palmi della fanciulla, poi la ragazza lo fece volare in alto per assumere la posizione di candela e poi darsi la spinta e tornare in piedi. Così l'acrobata riprese l'attrezzo facendolo mulinare attorno al suo braccio e ne approfittò per esibirsi in una spaccata laterale con un solo piede come appoggio. Ora mancava solo il gran finale.

    “Fa freddo!”
    Seppur le labbra rosse di trucco e sangue non si mossero, Jester era convinta di aver parlato. Forse si sarebbe accorta della realtà se solo la sua mente non fosse stata tanto annebbiata da scordare la sua incapacità di parlare normalmente. Le dita diafane della giovane corse al petto si erano macchiate di scarlatto. Alla ragazza ci volle qualche secondo per comprendere che il tripudio di chiazze vermiglie sul vestito giallo era il suo sangue. “Mi hanno colpita? Sto morendo…?”



    Si chiese la Hunter stupita e terrorizzata, come se si trattasse della prima volta che versava in quelle condizioni. Non che questo stato d'animo la infastidisse, sapeva benissimo che un atteggiamento diverso l'avrebbe portata alla distruzione. Nonostante ciò la fanciulla doveva ammettere a sé stessa di abusare di quella sua condizione d'immortalità: negli ultimi tempi accettava ogni incarico palesemente suicida partecipando in prima fila e senza preoccuparsi di assumere posizioni rischiose. Inoltre non stava neanche più attenta a celare la propria presenza e s'imbottiva di farmaci per non sentire dolore, usando la sua “abilità” come diversivo.

    La verità è che tutto quello le piaceva, e non si trattava della Morte... o almeno, non la sua!

    Gli occhi d'onice si persero nel mare cremisi che la circondava e, seppur l'odore da mattatoio le aveva procurato qualche conato, non poté che sorridere agli sguardi buffi dei corpi attorno a lei. Si chiese a cosa avessero pensato quando l'avevano vista piombare su di loro e ammazzarli ad uno ad uno tornando in vita ogni volta che veniva eliminata.
    Con quei pensieri nella testa, si trascinò moribonda sulle braccia verso il corpo esanime di una donna di mezza età. Si perse nelle sue iridi vitree e maledisse se stessa: a causa delle brutali ferite che affliggevano il suo corpo e deturpavano il volto dell'altra, non riusciva a decifrarne l'espressione. Senza contare la vista appannata e le energie che l'abbandonavano. A quel punto il Guitto si raggomitolò accanto a lei e poggiò con fare stanco il capo sul petto della donna, imbrattando la propria chioma di sangue. Un debole sorriso nacque sul volto di Jester, che abbracciò goffamente quell’angelo: non solo era morbida, ma anche calda! E lei aveva tanto freddo.
    Beandosi di quel contatto "umano", l'indice ricalcò il contorno della bocca cadaverica, tingendola di vita. I quesiti nella sua mente si susseguirono: “Stava urlando? Chiamava qualcuno?”
    Non importava più. Lei non era più viva... ed era giusto che fosse andata così, quella era guerra. Ma era conscia che si trattasse di una scusa per nascondere il suo e altrui divertimento interesse.


    Portandosi una mano sul fianco Narhella abbandonò la sua posizione abbassando la gamba, mentre allargando il braccio destro lasciò che il cerchio le svolazzasse sopra la testa. Lo lanciò a qualche metro da lei, inseguendolo mentre volteggiava con fare elegante.
    Afferrò l'attrezzo con le mani poste dietro la schiena, poi iniziò a farselo passare attorno al corpo saltellando come se giocasse con una corda. La fanciulla si esibì nella mossa dello scorpione girando come una trottola. Quando si fermò l'hula hoop era stretto fra le mani all'altezza del collo.



    SPLASH

    Probabilmente gli spettatori ebbero un sussulto quando la giovane lasciò cadere fra le onde il cerchio d'acciaio,
    per poi seguirlo e svanire negli abissi.




    Vi lascio qui i link delle esibizioni di ginnastica ritmica da cui ho preso spunto: 1, 2, 3
    Baci <3
     
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    black s c o r p i o

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    Tutto intorno a lui era diventato d’improvviso silenzioso; il suo sguardo era assente, perso in quel fiume di fiammelle liberato dalle genti dell’Ovest in onore ed in ricordo di coloro i quali purtroppo non erano riusciti a farcela. Si trattava di un silenzio assordante, decisamente troppo rumoroso per passare inascoltato e fin troppo opprimente per riuscire a scansarlo. Era un silenzio cupo, di tenebra, proprio come quell’aura maligna che aveva ormai abbracciato l’intera Sequerus, trattenendola in ostaggio in qualcosa di decisamente malvagio e nero. Amon si sentiva appesantito e più continuava a pensare a tutto quanto era successo e più continuava ad incupirsi; il verde dei suoi occhi a spegnersi e lo sguardo sempre più assente e distaccato dalla realtà, come se quella danza di fuoco e fiamme l’avesse condotto in un’altra realtà, in un’altra dimensione: in un sogno.

    Quando si era imbarcato in quell’impresa non avrebbe potuto immaginare di uscirne così segnato, con l’anima dilaniata da ferite che difficilmente si sarebbero rimarginate, lasciandogli comunque un senso di disgusto per tutto quanto aveva visto e vissuto sulla sua stessa pelle. Lo Scorpione nel corso di quel conflitto, di quella ribellione era cambiato profondamente e sapeva che dentro di sé aveva cominciato a svegliarsi – di nuovo – l’assassino d’un tempo, che con estrema difficoltà era riuscito a confinare nei più reconditi angoli del suo cuore; all’odore del sangue e di quelle barbarie aveva fatto nuovamente capolino, emergendo in tutta la sua più bieca ferocia e mostrando l’aspetto più spietato di Amon. La guerra trasforma gli uomini e nonostante non fosse nuovo a simili esperienze, l’egiziano ne era stato profondamente toccato una volta di più; aveva saggiato quanto cupo potesse diventare l’animo di un uomo, quanta oscurità potesse lambire il suo cuore usurpando e vessando la vita del prossimo. Era per questo che avrebbe dovuto combattere ancora una volta contro sé stesso, contro i suoi stessi istinti e lasciare brillare quella fioca luce che sentiva partire dal suo cuore; un lume tutelare che gli avrebbe consentito di brancolare nella tenebra più cupa e di non asservirsi nuovamente alle tenebre come in passato, come già era successo durante la ribellione. Lo Scorpione l’aveva tentato e lui l’aveva assecondato, l’aveva liberato. Aveva sentito il bisogno di tirare fuori quella parte di sé, ma sapeva in realtà di non averne davvero bisogno: e allora, quale doveva essere il lato che più lo rappresentava? Le tenebre o la luce? Aveva voluto abbandonarsi di sua sponte allo Scorpione o ne era stato semplicemente sopraffatto? Un po’ l’una e un po’ l’altra.

    Quella guerra, però, l’aveva portato a voler decidere di cambiare e di elevarsi; di abbandonarsi alla luce completamente. Il percorso sarebbe stato complicato, ma valeva la pena provarci. Aveva una nuova luce da difendere e proteggere, una nuova ragione di vita per cambiare sé stesso: Elia. Al solo baluginare di quel pensiero, del bambino, su quell’espressione perduta nel vuoto andò ad abbozzarsi un sorriso. Quel bambino ne aveva passate tante, troppe a causa di quel regime razzista e dittatoriale; era stato imprigionato ed usato senza mezze misure e malediceva ancora il momento in cui aveva avuto la possibilità di sgozzare il dottore e vendicare così non solo Elia, ma tutti coloro i quali avevano subito la stessa sorte, lo stesso supplizio e finanche la morte. Lo pensò per un attimo, salvo poi scuotere la testa e allontanare quel pensiero di vendetta così negativo, così oscuro: così da Scorpione. Aveva fatto bene d’altronde, altrimenti sarebbero morti tutti in quella prigione, a causa di quella esplosione; non sarebbe riuscito a rispettare la promessa fatta ed Elia sarebbe morto. Aveva fatto bene, continuava a ripetersi, seppure in quelle parole vi fosse ancora quel retrogusto amarognolo di una vendetta sfumata – allontanata, certo, ma inconsciamente ricercata. D’altronde doveva trarre i più elevati insegnamenti da un evento così infausto quale era stato il conflitto nel Presidio e la vendetta non rientrava tra questi; la vendetta era solo un veleno per l’anima, nulla di più. Cercò di abbandonare quell’idea, seppure timidamente sembrasse riaffiorarne il pensiero – sempre più labilmente, però.

    Nel corso degli eventi, aveva trovato molti amici e ne aveva persi altrettanti: la guerra purtroppo esigeva il suo tributo di sangue ed in quella circostanza aveva preteso molto più del sangue. Le anime dello schieramento dittatoriale erano state fagocitate da qualcosa di decisamente cupo ed oscuro, al di fuori della loro portata e cognizione; per questo sentiva di dover loro almeno un pensiero, una preghiera in cui infondere tutto sé stesso. Se vi erano delle divinità su quel semipiano, ad esse l’avrebbe rivolta ed elevata. Non vi era nulla di cui gioire, se non per la ritrovata libertà: molte vite erano state recise e nonostante fosse un veterano, continuava a ripetersi che non era affatto giusto; continuava a dirsi che la cosa si sarebbe potuta risolvere diversamente. Ma in cuor suo sapeva che quella era l’unica strada percorribile, l’unica via utile a raggiungere lo scopo di liberare il Presidio da un ideale corrotto e terribile. L’oscurità che adesso abbracciava Sequerus rappresentava distintamente il male che negli anni era stato perpetrato e propinato agli abitanti dell’Ovest; adesso sembrava essersi materializzato per quello che effettivamente doveva rappresentare: un miasma melenso, velenoso e mortifero. Dapprima aveva avvelenato gli animi degli uomini ed ora avvelenava la terra, rendendola invivibile. E così, insieme agli altri abitanti, anche Amon era lì a tributare l’ultimo saluto ai caduti (tutti i caduti, persino coloro i quali appartenevano al regime) ed alle vittime innocenti che si erano immolate inconsapevolmente – o meno – per un’ideale più grande ed elevato: la libertà.

    Non poteva però non rivolgere un pensiero di stima ed affetto nei confronti di Namas, il Principe con il quale aveva condiviso il campo di battaglia; con il quale aveva condiviso le gioie della vittoria e le lacrime per la perdita di lady Odayaka e degli altri compagni. L’aveva perso di vista, catturato da uno strano individuo dalla capigliatura scarlatta, decisamente fuori luogo per modi ed aspetto al campo di battaglia. Erano semplicemente svaniti nel nulla e di loro si erano perse ogni tracce, come se invero non fossero mai esistiti. Nel suo cuore, però, come in quello degli altri soldati il ricordo del Principe era decisamente vivido e cocente: la sua scomparsa in circostanze dubbie e sospette faceva male, perché – soprattutto lui – non aveva potuto fare nulla per sottrarlo a quel destino – qualunque esso fosse. Alzato il capo in direzione di quel fiume di lucciole lucenti, riuscì finalmente a mettere a fuoco l’intera situazione riscoprendo dentro di sé un mastodontico senso di smarrimento, quasi di spavento nell’assistere a quella migrazione di massa, di un intero popolo costretto a fuggire dalle proprie case, dalle proprie terre a causa di un fattore esogeno del quale non sapevano nulla; sentiva quella sensazione di malessere su di sé, nel suo corpo fino a dolergli nel petto con inusitata violenza, come se quel miasma lo stesse divorando dall’interno spezzandogli il fiato. Per un attimo si sentì quasi soffocare, respirando a fatica ed un senso d’ansia piuttosto opprimente nel mentre lo costringeva quasi a piegarsi in due. Un fattore psicologico non da poco, capace di turbarlo in modi che neanche gli era concesso immaginare o pensare.

    Si sentiva strano ad assistere a quella scena; vedere tutti quegli esuli faceva male e nonostante la vittoria sentiva un senso d’angoscia continuare a crescerli dentro. Tanto sangue sparso, tante vite estirpate e nemmeno la gioia di una meritata vittoria a scaldare i loro cuori, costretti com’erano a dover abbandonare tutto e ripartire da capo. E anche lui doveva farlo.
    Doveva mettere un punto a quella storia e ricominciare, partire nuovamente e far sì che il presidio ed il bosco non dimenticassero mai quanto era successo in quei giorni, a futura memoria per le generazioni a venire; che mai più un uomo avrebbe dovuto ergersi su un altro e chiamarlo diverso e per questo denigrarlo, condannarlo o perseguitarlo. Mai più l’Ovest avrebbe sopportare un’onta simile. L’aveva promesso a sé stesso, a coloro i quali non c’erano più ed infine a quel fiume di genti che era stava abbandonando inesorabilmente il luogo che fino a qualche tempo prima aveva chiamato casa; lo doveva, in ultimo, al piccolo Elia al quale aveva promesso un futuro di pace e di felicità incondizionata. Quella era una delle speranze che alimentava ormai il suo cuore tormentato da incubi e ricordi, un’ancora di salvezza alla quale si sarebbe aggrappato strenuamente per salvare la propria anima; una luce brillante, un focolare dal quale attingere la forza e la speranza per il tempo a venire.

    Sorrise nel suo inconscio, con gli occhi lucidi a guardare ancora davanti a sé, da quella collinetta dove stava; lasciò sfuggire un sospiro lungo, lunghissimo dopo un’inspirazione profonda come a voler trarre le ultime forze per il viaggio che l’attendeva. Doveva fare ritorno al bosco e adempiere ai suoi doveri di guardiano: ne era stato fin troppo lontano a causa del conflitto e chissà in quale stato l’avrebbe trovato o se qualcuno ne avesse in qualche modo approfittato della sua assenza forzata. La guerra purtroppo non aveva eliminato tutta la feccia e di certo qualche esule, qualche sciacallo girava ancora indisturbato per le terre dell’Ovest, magari a trovare riparo nei confini di Kijani Fahari. Ah, quale terribile errore.
    Eppure, nel tornare con la mente al bosco si sentì nostalgico ed il pensiero tornò veloce alla sua signora, Shui Yoe Tu; sapeva che presto o tardi sarebbe tornata ed era stato proprio grazie ai suoi ricordi che ella era riuscita a ritrovare sé stessa, pur senza le sue spoglie mortali. E proprio li, proprio in quel luogo ormai dimenticato dagli dei, dai kami, oltre ai fiori di ciliegio vide volare nel cielo i fiori della magnolia: il fiore prediletto della sua signora. Colpito e commosso al tempo stesso, sentì come una fitta nel petto. Nessun dolore, nessun patimento: era gioia e felicità. Doveva essere un segno, in una giornata così cupa; un segno del ritorno della sua signora e infatti i petali del suo fiore favorito continuavano a cavalcare il cielo, sospinti da una brezza in direzione del bosco.

    Ricompostosi nel portamento, bene attento a nascondere alla vista altrui il suo equipaggiamento al di sotto dell’ingombrante mantello, si era ormai deciso a lasciare quel posto e fare ritorno verso l’unico luogo che poteva realmente chiamare casa: Kijani Fahari.

    Addio amici. Addio fratelli. Quest’oggi onoriamo la vostra perdita e scolpiamo le vostre vite nei nostri cuori. Grazie al vostro coraggio, al vostro sacrificio ed alla vostra dedizione quest’oggi siamo qui a reclamare la nostra libertà. E la vostra, ormai liberati dalle sofferenze cui l’oppressore vi ha costretto. Il mio, il nostro pensiero va a voi, eroi impavidi: possiate trovare la pace, ovunque vi troviate adesso. ” disse rivolgendo lo sguardo al cielo.

    E tu, Principe; Namas. Sei stato l’anima della rivolta, insieme a lady Odayaka: è stato grazie a voi, al vostro sacrificio che possiamo fregiarci di questa libertà. Senza la vostra determinazione, senza la vostra più ardente dedizione tutto questo non sarebbe stato possibile. È stato un piacere, un onore conoscervi e legare la mia vita alla vostra: nel poco tempo in cui siamo stati insieme siete stati in grado di insegnarmi molto e di questo vi sarò per sempre grato. Possiate trovare la pace, adesso: siate finalmente liberi anche voi. ” aggiunse, come se parlasse direttamente con loro – e forse era davvero così.

    A voi tutti, infine, un’umile preghiera: vivete. Abbiate il coraggio di vivere, di vivere liberi. Io farò altrettanto e m’impegnerò affinché non vi venga più sottratta. Questa è la promessa che ti rivolgo, popolo dell’Ovest. ” concluse determinato.

    Un ultimo sguardo verso quella terra martoriata, proprio in direzione del luogo da dove il miasma era stato vomitato fuori; un ultimo sguardo verso i focolai e le lanterne dedicate a chi ormai non c’era più. Un ultimo sguardo alla gente che viaggiava, che lo circondava.

    Messo il cappuccio si avviò a sua volta, perdendosi nella folla. Era arrivato il momento per lo Scorpione di tornare finalmente a casa.
     
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    La Guerra era finalmente conclusa, non prima di aver mietuto innumerevoli vittime. Atrocità e terrori erano stati commessi in nome di ideali malsani e per l'avidità e la cupidigia di pochi uomini. E come sempre a soffrirne di più erano stati i più deboli e gli innocenti. Liberare le terre occidentali da quel giogo crudele aveva richiesto un prezzo altissimo, ma molti valorosi guerrieri -sul campo di battaglia e non solo- avevano deciso di votare la propria vita e mettere al servizio della causa i propri talenti pur di mettere fine al male che veniva perpetrato nell'Ovest.

    Le popolazioni native avevano potuto contare su molti alleati durante quelle tribolazioni, e Mugen Fudo era uno di essi. Il Destino lo aveva portato nel suo girovagare per il semipiano nelle terre occidentali di cui allora sapeva così poco. Non aveva mai avuto una fissa dimora da quando era giunto su quel mondo così strano, e non era la prima volta che rischiava la sua vita per il bene di Endlos. Eppure, quando si era addentrato nelle terre occidentali, mai e poi mai avrebbe potuto immaginare come quella scelta avrebbe per sempre cambiato il corso della sua vita.

    Non molto tempo dopo aver raggiunto il limitare del Kijani Fahari si era imbattuto nei luridi servitori degli Oppressori, che gli avevano riservato odio e insulti e per poco non lo avevano ucciso. Mugen ricordava ancora con quanto odio e livore era stato assalito. Quei soldati non stavano solo eseguendo degli ordini, il seme di odio propagandato dai loro sovrani li aveva avvelenati nel profondo. Per poco non era riuscito a fuggire, ferito nel corpo e nello spirito. Fu in quel momento drammatico che fece la conoscenza dello Scorpione, un incontro che avrebbe avuto risvolti profondi negli eventi a seguire. In quel frangente non poteva che pensare di trovarsi di fronte ad un ennesimo avversario, non avrebbe mai potuto immaginare che quell'umano si sarebbe rivelato un formidabile compagno d'armi ed un amico fidato. Da quell'incontro in poi un'incredibile serie di eventi si era avvicendata e la loro amicizia si era consolidata dopo ogni avversità, mettendo un freno alla rabbia avvelenata d'odio con cui gli stessi Lacci avevano infettato il cuore e la mente del Demone.

    Mugen aveva deciso di mettere al servizio della causa tutto se stesso, la sua spada, i suoi artigli e le sua stessa vita. Più volte era caduto, ma era sempre riuscito ad alzarsi. Anche grazie all'aiuto di molti altri valorosi guerrieri.
    La Guerra, anche se conclusa, aveva il terribile potere di lasciare ferite profonde e difficili da sanare in vincitori e vinti. Difficilmente il Demone avrebbe potuto dimenticare gli orrori a cui aveva assistito, mai avrebbe dimenticato tutti i caduti che si erano immolati per fare breccia tra le mura di Sequerus e mai avrebbe dimenticato l'orrore e le nefandezze che erano state perpetrate nei meandri delle prigioni nei confronti dei non-umani.

    Mai più.

    Avrebbe fatto di tutto perché un simile orrore non si potesse ripetere. Un fardello enorme certo, ma in cuor suo sapeva di non essere il solo a farsene carico.
    Quelle tribolazioni avevano lasciato un segno profondo in tutti loro.

    Ma la Guerra aveva anche un altro terribile dono, era in grado di logorare anche il guerriero più valoroso. Dopo quell'ultima grande battaglia il Demone Volpe non anelava che ad un po' di serenità e mentre insieme ai superstiti si preparava ad abbandonare i Cinque Picchi non poteva che chiedersi quanto la pace così duramente conquistata sarebbe durata.

    L'aura nera che aveva avvolto Sequerus era per tutti un mistero ed un rompicapo, ma per lui non era che un cattivo presagio.

    Sperava solo che i popoli dell'Ovest riuscissero a ritrovare la pace e la forza di ricostruire, prima di dover affrontare la nube nera che si stagliava nell'orizzonte del futuro di tutti loro.

     
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    VOREL
    VOREL ¤ OF THE HULL CLADE
    SIMIC¤ ¤ ¤100%
    Una gravosa melodia permeava l'aria, appesantendo il passo di Vorel lungo quel cammino irto e malandato. L'Ibrido aveva infine deciso di darsi alla scalata dei picchi -quali fossero gli avvertimenti nefasti che aveva ricevuto- e le difficoltà e l'asprezza del territorio ancora non erano riuscite a farlo desistere dal suo testardo proposito: era alla ricerca di un luogo da far proprio, da abitare e da eleggere a nuova casa, pertanto non si sarebbe dato per vinto tanto facilmente.
    Di molti luoghi che aveva visitato -di molte terre esplorate e di molti paesaggi rapiti nei suoi occhi- niuno aveva ancora soddisfatto la sua smaniosa esuberanza d'azione. Non c'era angolo di Endlos che facesse al caso suo, nessun castello e nessun prato erano allora stati in grado di suscitare quella scintilla in fermento che si agitava nel mutevole porsi del Biomante; dal Presidio Centrale egli s'era recato in ogni altro -fuor che l'Ovest, meta ancora inviolata dalle sue membra- contemplando una diversità estrema che, tuttavia, accompagnava soltanto una vacuità altrettanto incontenibile.
    Tutto gli appariva scialbo, smorto, spento. Nei regolamenti di corte, nel placido stendersi della pianura, nell'arsura delle sabbie silenti e mute, nell'ostilità di un bosco chiuso persino a se stesso, così come nel gelo immeritato e nell'abbacinante bianco che governava i suoi più recenti viaggi. Niente gli era proprio, eppure avrebbe pur dovuto svelare un piccolo anfratto in cui rifiorire: l'incarico era assoluto, la possibilità di esimersi nessuna.

    E così, ancora alla ricerca di una terra accogliente e florida in cui operare le volontà della Portavoce, Vorel si era spinto oltre i confini tra settentrione ed occidente, giungendo infine in quelli che fino a qualche tempo prima andavano sotto il nome di Cinque Picchi: per quanto viandante solitario, Vorel non era digiuno alla storia di quel presidio e -pur avendo appreso il tutto via studio- nella sua pungente curiosità aveva trovato il modo di chiedere e di domandare, salvaguardando dai locali in fuga un sapere che prima o poi sarebbe andato contaminato dal racconto e dalla leggenda.
    Egli era giunto così a conoscenza del dolore e della follia che avevano inquinato quelle terre, della cecità e del tradimento che ne avevano corrotto il bene più raro; e nonostante ciò l'Ibrido non si era arrestato, sempre procedendo in direzione di quel tempio d'odio e di vile culto, assecondando i flussi nefasti con un passo ora qui volto ed ora diretto altrove.
    Per opporsi a quel grido d'orrore che gli opprimeva il cuore -l'animo?- Vorel si era infine visto costretto a mutare di forma, quasi a svincolarsi di dosso l'abbraccio pestifero ed indesiderato che indiscusso padrone aleggiava sopra ogni cosa: si era fatto bipede e poi quadrupede, arrampicatore e indipendente dal suolo, volatore libero e finanche celato scavatore ma niente sembrava portelo salvaguardare da quell'ordine empio che aveva già tutti scacciato.
    Furono solo l'ardore ed il desiderio di raggiungere la propria ambizione -furono soltanto la strenue forza d'animo e l'inflessibile volontà di successo che il Biomante sapeva padroneggiare- a permettergli di calcare infine piede sulla sommità di quel vuoto cimitero d'intenti: dovunque si guardasse d'intorno egli non vedeva che sconfitta ed annientamento e facile sarebbe stato cerdervi, per l'oppressione che innaturalmente lo spingeva ad abbandonarsi alla disperazione. Ma, ancora, il Cangiante fece appello a tutto ciò che gli rimaneva di puro e d'intonso, e ciò gli fu sufficiente per trattenersi quel poco da serbare con sè un ricordo della perduta città di Sequerus.

    Della meraviglia che aveva veduto prima del suo arrivo non era rimasta che una brace fredda al centro della piazza principale -di quelle luci fluttuanti, cui aveva partecipato anch'egli in una forma viva e opportuna, non c'era più traccia. La Vita si era spenta tra le grinfie della Morte, abbandonando quel luogo senza volervi più ritornare.
    Solo un ciliegio fioriva in quella desolazione incontrastata, gridando al mondo, alla Morte e a Vorel che niente avrebbe mai potuto ostacolare la Vita, fin quando Essa avrebbe avuto volontà e desiderio di ergersi e di soffrire per un ideale che valesse ogni lotta ed ogni battaglia. La Vita era ancora là, ancorata a sè stessa a sfidare la Morte. E non si sarebbe data per vinta, nè oggi nè mai, perchè ad ogni tramonto doveva seguire un'alba così che il Ciclo mai abbandonasse l'Equilibrio profondo che ne alimentava il moto.
     
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    Spingendo il destriero ad un trotto sostenuto con un solo secco sprone dei talloni, l'albino risalì le fila della carovana, raggiungendo la testa della colonna e facendo segno ai luogotenenti di trasmettere l'ordine di fermarsi: per quanto mancasse ancora un'ora al tramonto, per quel giorno avevano faticato tutti abbastanza... ed era giunto il momento del meritato riposo.

    Con ordine e disciplina, la maggior parte di carri, viandanti e cavalieri di quella moltitudine iniziò a predisporre il campo, e mentre l'insediamento prendeva forma, la luce del giorno scemava nella delicata penombra della sera, dipanando ovunque una quiete profonda e tonante come il primo rombo di tuono di una tempesta: quello alla cui testa si era messo rappresentava il grosso del contingente orientale, ora sulla via del ritorno, ma... tra di essi non c'erano solo i soldati in marcia verso casa, bensì anche numerosi profughi, in fuga dai ricordi di un passato doloroso, alla ricerca di un futuro migliore in qualche altra città dell'Ovest, o -perché no?- persino all'inseguimento di un miraggio di speranza che conduceva verso una vita completamente nuova in altre terre.

    Pur limitato nei movimenti dal braccio fasciato e inerte -che le bende tenevano assicurato al collo-, Sir Lancelot DuLac smontò di sella con disinvoltura, contemplando pensieroso l'affaccendarsi dei suoi uomini e il quieto -e stanco- organizzarsi delle famiglie di civili che viaggiavano insieme a loro: per quanto a livello umano ogni guerra non fosse altro che un'atroce tragedia, i saldi principi del Cavaliere del Lago convivevano con un sempre freddo pragmatismo, ed era per questo che -una volta di più- non aveva potuto far altro che apprezzare la saggia lungimiranza della sua Regina. E le doti diplomatiche e persuasive del suo Legato.


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    « . . . »

    Per quel che aveva metabolizzato degli insegnamenti di suo padre -quando da bambino gli era stato fatto sentire tutto il peso della successione al comando del loro casato-, Lance era ben conscio che imporre la presenza di un esercito straniero in un Paese martoriato da una guerra civile avrebbe potuto facilmente creare un'atmosfera tesa all'indomani del conflitto, incrinando ogni potenziale rapporto di amicizia... così, per volontà dell'Alfiere Kalia Menethil, era stato disposto che maggior parte della guarnigione armata dell'Est facesse al più presto ritorno alla capitale, lasciando sul posto solo una esigua rappresentanza.

    Una volta terminata l'evacuazione di Sequerus, ai soldati non era rimasto altro da fare che prestare un ultimo servizio alla popolazione: scortarli fino alle altre città dell'Ovest, o fornire un passaggio sicuro attraverso il Pentauron, fino a Chediya; al personale tecnico di supporto, che annoverava tra le sue fila solo guaritori e ingegneri, era stato invece consentito di rimanere nel corso dell'opera di ricostruzione sotto la tutela degli Amunhasses -una delle Nobili Famiglie tornate in carica- grazie agli accordi che l'Est aveva preso con loro nella persona dell'Ambasciatore Quarion Galanodel.

    In questo modo, i popoli dell'Occidente avrebbero potuto godere dell'assistenza dei loro antichi alleati, senza che per questo i loro feudatari sentissero il peso di qualche ingerenza estera nei loro affari...

    L'improvviso soffio di una fredda folata di vento lo riscosse dai suoi pensieri, scompigliandogli i capelli nivei e facendo ondeggiare dietro le spalle l'ampio mantello che l'avvolgeva, e nel sollevare il viso verso l'alto, la Guardia Indaco notò che -senza che se ne fosse reso conto, perso com'era tra i suoi pensieri- la volta stellata dell'imbrunire aveva ormai sostituito il cielo fiammeggiante di un tramonto incendiato dal sole morente... e questo voleva dire che era ormai ora del Rituale.

    Per commemorare i caduti, e con l'intento di alleviare i tormenti delle anime che -con i loro stessi occhi- tutti avevano visto venir rapite da una forza nefasta al termine della battaglia al Picco della Pena, i monaci avevano invitato chiunque a rischiarare le tenebre con una piccola luce... e quel che ne era scaturito era la dimostrazione quanto mai poetica ed efficace di quello che sa realizzare un gesto anche minuscolo compiuto da molti: lentamente, lumi di candele, torce e lampade si accesero per rischiarare la notte, spargendosi per le lande immerse nell'oscurità, galleggiando a bordo di barchette grandi come giocattoli sopra la nera superficie dell'oceano, e riempiendo la volta di un cielo avaro di stelle con i colori dalle lanterne fluttuanti.


    Per le usanze del suo Presidio, si usavano solitamente i fiori...
    Spostando gli occhi verde acqua dallo spettacolo che rischiarava il firmamento alla rada vegetazione che lo circondava, Lancelot adocchiò alcuni fiori di campo a pochi passi da lui: li raggiunse senza fretta, li colse con delicatezza spezzando gli steli sottili con le dita, e -aiutandosi con il braccio offeso- rimosse tutti i petali che ne componevano le corolle; quando ebbe concluso quell'operazione, strinse gentilmente nel pugno i fiori che aveva scomposto, e se li portò alle labbra, mormorando una preghiera... poi, spalancò il palmo e consegnò il suo omaggio alla brezza.

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    « . . . »

    E mentre i petali si innalzavano nell'aria, sospinti dal vento che avrebbe portato lontano il ricordo del loro profumo, il Cavaliere del Lago prese solennemente congedo dalle terre dell'Ovest.

     
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    "Basta non essere mai ingiusto per essere sempre innocente?"

    Jean-Jacques Rousseau.


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    Carrozza dell'Ambasciatore.
    Strada verso l'Est.

    Con il busto comodamente posato su una delle due estremità del sedile e lo sguardo rivolto al vetro traslucido della porta della sua carrozza che, finestra sul mondo, gli permetteva di osservare il paesaggio farsi sempre meno aspro e buio ad ogni passo che non fosse diretto a Sequerus, l'Ambasciatore dell'Est era rimasto chiuso in un placido silenzio a cui non si era soliti osservare, se abituati alla sua compagnia. Per questo Francis rimase a lungo in quella posa, busto in avanti e sguardo azzurro fisso sull'oro luccicante del suo Signore, perso in chissà quali pensieri, del tutto intento a far chiarezza su quell'insondabile mistero.
    Poi -improvvisamente- l'epifania.

    -E' stata la prigionia, mon capitain?

    Fu la prima volta da quando erano partiti che l'Ambasciatore lo degnò anche solo di uno sguardo, e tale consapevolezza rese l'Attendente timoroso e sollevato al tempo stesso. Ciò nonostante, la linea delle labbra che si piegava in un sorriso composto e rilassato gli diede modo di capire che, almeno, Quarion non fosse agitato.

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    -A fare cosa?
    -...sembrate triste. Che sia rimasta qualche cicatrice sul vostro corpo? Anche se così fosse, la vostra bellezza non appassirebbe mai, mio signore.

    Nonostante il Galanodel fosse solito crogiolarsi nei complimenti, quella volta non fu particolarmente colpito da quella genuina esternazione. Levando il braccio e fissando il palmo della propria mano aperta con aria pensierosa, si limitò a rispondere al sottoposto con voce atona e priva della carezzevole compostezza con cui era abituato trattare durante le ore lavorative e in molti dei suoi incontri galanti.

    -Non potrebbe mai accadere: i Galanodel non conservano mai cicatrici delle proprie ferite. Nemmeno le peggiori: agli Angeli non è dato soffrire, perché simulacri della grandezza divina-
    lasciò cadere il proprio braccio al peso della gravità, riposandoselo sul ventre -Tuttavia l'esser fatti di carne implica dolore, quindi noi -creature a metà- soffriamo ma non ne portiamo i segni. A ben pensarci, è scritto proprio nel nostro sangue quanto siamo bugiardi.

    Sospirò, tornando a fissare l'orizzonte oltre il vetro, consapevole che ormai era quasi giunta l'ora del rituale.

    -Non ha senso incolparsi dopo quello che è accaduto: sono queste guerre a ricordarci chi è nel giusto e chi sbaglia. Servono a mettere ordine: punire i deboli, ridare una vita dignitosa agli innocenti...

    Portando nuovamente lo sguardo aureo sul proprio Attendente, Quarion rimase alcuni attimi a fissarlo con aria sorpresa. Fu solo dopo che scoppiò in una fragorosa risata, resa elegante da un vago -ma volutamente ben visibile- tentativo di ricomporsi.

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    Lasciando così Francis nella più assoluta confusione, puntò bene entrambe le suole dei propri stivali per terra, così da far leva sulle ginocchia e sollevarsi in piedi, non prima di estrarre da una valigetta una piccola lanterna di molto simile a quelle che già avevano preso a volare in cielo.
    Quando la carrozza fu ferma, con un gesto pacato, aprì lo sportello.
    Prima di varcarne la soglia per uscire e raggiungere Lancelot, non molto distante da loro, il Galanodel lanciò tuttavia uno sguardo ammonitore verso l'altro occupante del veicolo, invitandolo così a riflettere su un pensiero diverso dal solito, forse un pò lontano da quella che era la tipica visione di un Cavaliere dell'Antico Codice.

    -Apri bene gli occhi, Francis. Nessuno a questo mondo è innocente.

    Gli diede le spalle, dunque uscì lentamente.

    -La guerra non ordina un bel niente: è solo uno sterminio di massa in cui si spera di colpire, fra i tanti, anche chi ha avuto la brillante idea di essere il primo a rompere le scatole. Non vincono i giusti: sopravvivono solo gli astuti ed i fortunati.

    Il rumore della porta che si chiudeva sancì la fine di quella breve discussione e Francis, rimasto allibito a quella risposta, non ebbe modo di fare altro che osservare le spalle del suo signore mentre raggiungeva il fianco di Lancelot Du Lac. Sporgendosi appena sul lato, sembrò dirgli qualcosa a voce bassa. Infine, anche lui, liberò la lanterna accesa dalla morsa delle sue dita.



    Edited by Drusilia Galanodel - 12/5/2017, 16:02
     
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