La gravità del suolo

Prima scena di Levin August Theophil von Bennigsen

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    L’
    insediamento sorgeva in mezzo alla landa deserta come un dente cariato.
    Sarebbe stato visibile da leghe di distanza, se solo le bufere instancabili del Nord non avessero sollevato nell’aria un perenne velo biancastro. Era praticamente impossibile arrivarci per caso. Oppure, secondo un altro modo di vedere le cose, era l’unico modo.
    Per avvistare le grossolane mura di granito bisognava arrivarci davvero molto vicino, e anche allora si sarebbe stati incerti se quella sagoma scura fosse una formazione di roccia naturale, oppure un’opera umana. E se lo era, come non pensare che si trattasse soltanto di una rovina abbandonata? Le condizioni atmosferiche erano il primo livello di difese della cava.
    Naturalmente esisteva un tracciato che conduceva alle sue porte, ma sempre ben sepolto dal compatto strato di neve ghiacciata che tutto ricopriva, nell’Etlerth. Il tentativo meglio riuscito per segnalare la posizione della miniera, e per permettere di arrivarci, erano dei cippi miliari, più simili in realtà ai menhir di un antico culto. Disseminati a distanza regolare nella tundra, recavano incisa sulla superficie una freccia e un nome: “GYLLKRAV’YER”
    L’insediamento più vicino era un emporio commerciale striminzito, che viveva degli approvvigionamenti alla miniera. Ma era un traffico che andava in una direzione sola: i carri di viveri tornavano indietro vuoti, perché il frutto del lavoro dei minatori, di qualunque cosa si trattasse, non lasciava la cava a quel modo.
    Tutto attorno al fortilizio si erano accumulati, negli anni, i detriti espulsi dalla miniera, così che ora essa assomigliava alla tana di una talpa gigante o di un lombrico. I mucchi di roccia scaricati fuori dalle mura avevano finito per superarle in altezza, così quando l’insediamento era cresciuto di dimensioni, la nuova cortina era stata edificata direttamente sulla cima di quel baluardo involontario, compattato dal ghiaccio.
    I bastioni erano quasi sempre deserti: non c’era ragione di sorvegliarli notte e giorno; la nutrita guarnigione serviva solo “nel remoto caso in cui”, e passava le ore nelle saune, oppure allenandosi nella sala comune riscaldata.
    All’avamposto si accedeva da una sola entrata: una porta-torre squadrata, arcigna; il portone di legno rinforzato, che restava sprangato per la maggior parte del tempo, era lambito in alto da un grande stendardo irrigidito dal gelo, su cui si poteva distinguere il simbolo di una casa in fiamme e di una stella d’oro.


    Info
    Benvenuto su Endlos! :brem:
    In questo primo post ho tratteggiato l'aspetto dell'insediamento minerario fortificato dove ti hanno condotto i tuoi passi. Si trova in un punto imprecisato della vasta piana dell'Etlerth, che costituisce la gran parte del territorio del Presidio Nord, controllato politicamente dall'elite privilegiata della città volante di Najaza. Quaggiù, gli abitanti non vivono in condizioni facili: è una terra inospitale, gli insediamenti sono rari, e l'aristocrazia generalmente si interessa direttamente solo delle zone dove si possono estrarre dei minerali. Come in questo caso.
    Visto che Levin ha passato sessant'anni da queste parti, è una situazione che conosce bene.
    Se non l'hai già fatto, leggi la descrizione dell'Etlerth, per calarti nell'ambientazione.

    Come ti anticipavo, ho pensato a questa soluzione per farti avvicinare all'inavvicinabile mondo dell'aristocrazia di Najaza. Come hai deciso di provare questa strada, sta a te immaginarlo e descriverlo! Prenditi pure il tuo tempo per spiegare come hai deciso di venire qui, dov'eri finora, quali sono le tue aspettative, eccetera.
    Per qualsiasi dubbio chiedi pure. Come ti dicevo, non sono uno staffer, ma sono su Endlos da un po'. E nel peggiore dei casi posso sempre reindirizzarti in Assistenza.

    Scusa la prolissità di questo specchietto, ma volevo darmi un'aria ufficiale ahaha A te!

     
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    Desolata, la landa si estendeva per lunghi e interminabili chilometri: un solo, unico paesaggio, uguale a se stesso, monotono. Perenne, come il gelo di quel luogo. Eppure così rassicurante per Levin. Anche un viandante esperto si guarderebbe dall’attraversare quella terra durante una delle frequenti bufere: il rischio di perdersi era elevato, e smarrire la strada equivaleva a perdere la vita. Ma Levin non lo temeva. Non conosceva quelle terre come le sue tasche, non era un individuo avventato, né incosciente, e di certo non uno che dava poco valore alla vita. Al contrario, aveva vissuto più di sessant’anni nel presidio settentrionale e sapeva bene che credere di sapersi orientare con facilità nell’Etlerth equivaleva a ingannarsi; e per quanto riguardava la vita, oh, quanto gli era attaccato! Mai la avrebbe rischiata incautamente, mai, sul piatto della bilancia, ci sarebbe potuto essere qualcosa con un peso maggiore della sua stessa esistenza. E allora per quale motivo continuava a vagare per quella distesa inospitale? Perché osservando la perfezione di quell’incessante tempesta, di quell’indistruttibile, definitivo e duraturo ghiaccio, il suo corpo ribolliva, quasi fremeva per l’ammirazione? Così fragile, lui, come avrebbe potuto divenire eterno come quella terra? Come poteva sconfiggere la morte?
    Un alito di vento spirò con particolare intensità, facendolo trasalire. Il volto si contrasse e le rughe sulla fronte risaltarono, mentre il viso si intorpidì leggermente, accennando un lieve colorito rossastro a causa del freddo. Levin si avvolse nel pastrano e tirò su il cappuccio, riparandosi dalla neve che continuava, imperterrita, a fioccare. Fece passare la mano lungo una sacca che teneva ben attaccata alla cintura e la tastò: era pesante e piena di monete; poco prima aveva venduto molte delle carni e pelli procuratisi con la caccia a un mercante che era passato di lì con la sua carovana. Conosceva il valore del denaro e il peso che questi aveva sugli uomini. Nella sua vita non aveva conosciuto tante persone e non era bravo a relazionarsi, ma del mondo conosceva tanto. Aveva letto, aveva studiato; aveva compreso, soprattutto, che il denaro era la più potente delle armi, il mezzo migliore per proteggersi. Eppure, neanche con quello sarebbe riuscito a sconfiggere la morte. Chiuse forte i pugni e serrò i denti, per poi rilassarsi appena un attimo dopo: aveva intravisto qualcosa di strano. In quel bianco e freddo deserto si intravedevano delle scure mura di granito. Levin abbozzò un sorriso. Sapeva che la presenza di quella carovana significava che nelle vicinanze ci sarebbe stato un insediamento. E un insediamento nell’Elterth poteva solo indicare la presenza di una miniera. Fece ancora qualche passo, e dopo appena quattro o cinque minuti trovò dei cippi militari a segnalare il sentiero. In quel momento il sorriso si trasformò in una risata. Nella sua lunga vita aveva provato in tutti i modi a sconfiggere la morte: rituali, tentativi di magie, miscugli alchemici e quant’altro, ma fu tutto inutile. Il suo corpo continuava a invecchiare e lo spettro della morte cresceva, diventando più forte giorno dopo giorno. Ma Levin sapeva che doveva esistere un modo per sconfiggere quella bianca dama che gli alitava sul collo sempre di più. E l’arma più forte che conosceva era, appunto, il denaro. L’avamposto che aveva di fronte rappresentava il modo migliore che aveva per avvicinarsi alla nobiltà, per poter sperare di arrivare a far parte di loro; non aveva dubbi che tra individui con un tale potere ce ne fosse qualcuno che potesse renderlo in grado di raggiungere il suo scopo.
    Seguì quelle che alla bell’e meglio dovevano essere le indicazioni, lesse ciò che vi era inciso, ma non comprese; lo memorizzò, tuttavia, conscio che il nome GYLLKRAV’YER sarebbe potuto tornargli utile. Giunse, infine, a un grosso portone in legno, così imponente sotto lo stendardo che mostrava una casa in fiamme e una stella d’oro. Si fermò per qualche istante, ispirando profondamente quasi volesse riordinare le idee. L’unico modo che aveva per avvicinarsi alla nobiltà, lo sapeva, era distinguendosi. E lui era bravo a fare solo una cosa: combattere. Doveva riuscire a unirsi alla guarnigione che doveva trovarsi oltre quelle mura. Espirò lentamente e il respiro, raffreddandosi rapidamente, condensò, creando una nebbiolina di vapore. Poi, con un paio di colpi secchi, bussò al portone.




    Eccomi!
    Spero sia chiaro tutto (e che non ci siano grossi errori), ma in caso non lo fosse, non esitare a chiedere. Buona role!
     
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    L’
    uomo procedeva solitario attraverso la cieca e vuota immensità.
    Era un vecchio, soprattutto per gli standard dell’Etlerth, dove una bronchite poteva spegnerti a quarant’anni, senza tante cerimonie, come due dita bagnate di sputo spengono la fiamma di una candela. Lui invece era arrivato fino a lì, e cosa ci aveva guadagnato? Solo uno sciocco avrebbe potuto rispondere “una borsa gonfia di soldi”, e pensare di avere indovinato.
    Niente. La risposta era niente.
    Perché se un orso fosse comparso allora dal nulla e lo avesse ammazzato lì dove si trovava, che differenza avrebbero fatto quei sessantun anni, trascorsi in varie ma in fondo piuttosto insignificanti vicende? Tirata una riga, che differenza risultava, fra quell’istante, ed il momento in cui aveva lasciato piangendo il ventre della madre che non aveva mai conosciuto?
    Certo, si poteva dire esattamente lo stesso per chiunque, o quasi, calcasse o avesse mai calcato la terra. Ma, per qualche ragione, quel vecchio solitario che attraversava in quel momento la landa nei pressi della miniera di Gyllkrav’yer sembrava esserne particolarmente consapevole.

    Nessuno fece caso a lui, e dovette ripetere i colpi sul portone diverse volte, prima che il suono insolito attirasse l’attenzione di uno degli occupanti dello sperduto insediamento.
    Salirono sulle mura, come prescriveva il regolamento, per accertarsi del numero dei visitatori.
    Uno.
    La giornata era meno ventosa del solito, e si riusciva a vedere addirittura per lo spazio di un centinaio di metri di distanza. Quel tizio incappucciato sembrava essere proprio venuto da solo. Che diavolo voleva? I soldati di guardia iniziarono ad azzardare le più varie speculazioni, perché quello non era certo un avvenimento frequente.
    Per fortuna, qualcuno pensò anche di andare ad aprirgli.
    Da fuori, Levin avrebbe sentito per alcuni minuti colpi di scalpello sui cardini ghiacciati, accompagnati da svariate bestemmie, prima che i battenti finalmente si schiudessero.
    « Per i numi, amico – da quelle parti le formalità erano state da tempo abbandonate – cosa diavolo vuoi? »


     
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    Cosa diavolo volete che ci faccia qui? Pensò, Levin, pur senza pronunciarlo. A giudicare dalla lentezza e dalla difficoltà con cui avevano aperto il portone, quegli uomini non ricevevano visite da parecchio tempo. Un sorriso cominciò a dipingersi sul suo volto, mentre altre osservazioni passavano rapidamente nella sua testa; se non ricevevano visite da un po’, allora anche i loro contatti con mercanti e carovane dovevano essere stati limitati negli ultimi tempi: forse aveva trovato un modo per poter entrare. Si sfilò il cappuccio, così che fosse chiaro a tutti che di fronte si trovassero un vecchio che non poteva rappresentare alcuna minaccia, quantomeno ai loro occhi. Non che fossero ostili le intenzioni di Levin, ma non era certo una nobile morale a guidare le sue azioni e qualora ne avesse potuto ricavare un vantaggio, non avrebbe esitato un momento a considerare chiunque un nemico, in quell’insediamento.


    “Il mio nome è Levin August Theophil von Bennigsen”


    Disse, facendo attenzione a scandire ogni lettera del cognome, quasi servisse a darsi un’aria più importante. Poi chinò il capo e accennò un inchino. Riconosceva che in quel momento gli altri erano in una posizione di vantaggio rispetto a lui, e non aveva interesse nel provocarli. D'altronde era stato proprio lui a presentarsi al loro cospetto.


    “Un riparo e un ristoro per breve tempo; sarebbe una grande cortesia da parte vostra”


    Aggiunse, con tono gentile e l’intenzione di non lasciar trasparire neanche l’ombra d’un intento ostile. Al contrario, voleva insinuarsi in quell’accampamento, arrivare a essere considerato uno di loro. Non era abituato a stare tra la gente, lui, eppure non disdegnava un po’ di compagnia di tanto in tanto; ancor più la bramava in quel momento, essendoci la possibilità di perseguire il suo fine.


    “Discutere d’affari e mercanteggiare sarebbe invece mio sommo piacere”


    Terminò, tornando ritto: questa volta non voleva far trasparire alcuna sottomissione. Stava parlando con loro, da pari a pari. Nel suo sguardo, una viva luce di superbia si accese, quasi a ripetergli - fedele monito a se stesso: Levin, sei ancora vivo.

     
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    dendo quella sfilza di nomi, alla guardia iniziò a formarsi il sospetto che quel tizio non fosse per caso un nobile.
    L’idea gettava tutta un’altra luce sulla situazione: quello stesso andarsene in giro a piedi da solo per la tundra, che nel caso di un povero diavolo non si sarebbe semplicemente potuto comprendere, poteva avere perfettamente un qualche recondito significato, per un aristocratico. Quella gente sembrava non avere altro da fare che inventarsi giochi originali per complicarsi la vita: c’era sempre qualche alleanza da tessere, qualche segreto da comunicare…
    Sì, era proprio un’ipotesi convincente.
    E poi, aveva un’aria intelligente. Proprio la tipica aria dei nobili, che ti parlano, ma si capisce benissimo che stanno pensando ad altro, qualcosa che di certo reputano immensamente più importante di te. Glielo puoi leggere in quegli occhi brillanti, chiaro come il piscio sulla neve.
    Ma, purtroppo, se si trattava davvero di un aristocratico, non bisognava commettere l’errore di sbattergli la porta in faccia. Portarlo dal comandante, e che se la sbrigasse lui. In ogni caso, anche se alla fine si fosse rivelato effettivamente un povero diavolo, e per di più deficiente, Sir Kennan non si sarebbe certo incazzato con loro solo perché lo avevano fatto entrare. Non succedeva mai niente, in quella miniera… poteva solo ringraziarli se gli procuravano lo svago della giornata.
    Quello il risultato delle rapide considerazioni svolte a mente dalla guardia di turno, la quale a sua volta, ironicamente, pensava ad altro mentre lo sconosciuto le stava parlando.
    Forse una sua bisnonna si era fatta ingravidare da un nobile, a un certo punto.
    « Va bene, venite dentro – lo invitò, spostandosi perché potesse passare attraverso lo spiraglio fra i battenti, che più di così di certo non si sarebbero mossi – dovete scusarci… puliamo i cardini ogni giorno, ma durante la notte il ghiaccio si forma di nuovo… »
    Dentro, l’insediamento era esattamente come ce lo si sarebbe potuti aspettare: senza fronzoli. Oltre la torre-porta si accedeva a un cortile abbastanza ampio, con baracche sui due lati, ed in fondo una costruzione più grande, con una tettoia di legno che ne riparava l’ingresso. Doveva essere l’edificio più grande di tutto il forte: un torrione tozzo, probabilmente a tre o quattro piani, con poche e piccole finestre.
    Non era tutto lì, naturalmente: dietro e tutto attorno ci dovevano essere altri fabbricati e, da qualche parte, l’ingresso della cava.
    « Di qua – fece cenno la guardia, avviandosi a capo chino verso il torrione – avete parlato di affari che volete discutere, giusto? Beh, non siamo noi quelli con cui volete parlare, chiaramente. Vi porto da Sir Kennan, e poi sarà lui a sbrigar… volevo dire… beh, non importa, eccoci qua »
    L’uomo sbatté gli stivali sulla soglia, quindi entrò. L’interno era buio e sapeva di affumicato, ma faceva decisamente più caldo che all’esterno. La guardia guidò Levin su per due rampe di scale di legno che seguivano il muro esterno, sbucando di volta in volta da una botola al piano superiore. Nessuno dei livelli era illuminato, tranne l’ultimo.
    « Sir Kennan! – vociò il soldato, mentre risalivano l’ultima rampa – ci sono delle visite! Un tale August von… – purtroppo ricordava solo quella parte del nome, che gli era sembrata la più familiare ed altisonante – …uno straniero è arrivato alle porte. Ho pensato di condurlo da voi. Siete occupato? »
    « Mandamelo su! – fu la risposta che venne da oltre la botola, e la voce era ferma, sicura, una voce che lasciava intuire l’uomo di comando – e tu, Jacov, fammi il favore di andare a dire a Sinnek che se per domani non si raggiunge la quantità minima ci dovrò andare di mezzo io come al solito »
    La guardia, che aveva sperato di poter restare lì sotto al caldo, magari con la scusa di garantire per l’incolumità del superiore, borbottò qualcosa tra i denti, aprì la botola sopra la sua testa, e quindi senza tante cerimonie se ne tornò giù, sparendo nel buio, e lasciando Levin da solo.
    « Dunque, fatevi avanti, amico, e fatemi la cortesia di ripetermi il vostro nome. Quel caprone di Jacov si è dimenticato di farvi lasciare le armi all’ingresso, dico bene? »
     
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    “Levin August Theophil von Bennigsen”


    Pronunciò Levin osservando l’uomo che aveva di fronte: aveva tutta l’aria di essere il capo, lì. La situazione proseguiva bene, persino troppo. Levin aveva percepito una sorta di reverenza dalla guardia che lo aveva condotto fin lì che lo aveva messo a disagio; non era abituato a esser trattato in quel modo. A dirla tutta, non era abituato ad aver a che fare con le persone. Ciò non voleva dire, tuttavia, che non era in grado di relazionarsi efficacemente con loro. Al contrario, era un ottimo oratore.


    “È un vero piacere conoscervi, Sir Kennan”


    Aggiunse, abbozzando un inchino. Scoprì completamente il viso e aprì il pastrano, approfittando del lieve tepore che cominciava ad avvertire: in quella stanza faceva decisamente più caldo. Per quanto spoglio e spartano potesse apparire quel posto - e aspettarsi qualcosa di differente sarebbe stato quantomai ingenuo - Levin cominciava a trovarsi a suo agio. Era piacevole e privo di inutili lustri. Certo, non c’era la nobiltà che la fantasia aveva costruito nella sua mente a mano a mano che percorse quelle buie e calde scalinate in legno, ma era chiaro che l’uomo si stava solo ingannando: si trattava di giochi della sua inventiva e null’altro.


    “Non siate troppo severo con vostri sottoposti: non ho armi con me e di certo non rappresento una minaccia per voi”


    Nel pronunciare queste parole mostrò che sotto il pastrano ormai aperto non v’era celata alcuna arma. Pur essendo essendo effettivamente in grado di utilizzare spade e pugnali, Levin non ne possedeva. Minavano la sua immagine ed erano scomode. Qualora ce ne fosse stato bisogno, era perfettamente in grado di combattere a mani nude. Anzi, probabilmente il fatto di essere un vecchio disarmato lo rendeva persino più pericoloso, in quanto gli stupidi e gli incauti abbassavano la guardia contro di lui.


    “Avrei piacere di discutere con voi per qualche minuto. Chissà se da questa chiacchierata non ricaveremo qualcosa entrambi!”


    Terminò, con sincerità - in effetti, pur volendo raccogliere più informazioni possibili. Al momento si sentiva sicuro di sé, avendo inteso che aveva due frecce al suo arco: la persona di fronte a lui aveva alle sue dipendenze delle guardie mediocri, e lavoratori che non riuscivano a soddisfare le necessità.



    Stato fisico: Illeso
    Stato mentale: Calmo
    Energia: 110%

    Passive:
    Vsevobuch
    L’allenamento marziale effettuato con suo padre ha reso Levin un ottimo combattente: schiva e colpisce con un’agilità ai limiti del sovrumano, per poi sferrare dei colpi incredibilmente potenti; la sua energia, in effetti, pare non finire mai. Passiva agilità 5 pt; Passiva forza 5 pt; Passiva 10% in più di mana 5 pt.
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    ir Kennan era un uomo sotto la quarantina, di corporatura imponente, ma nella media per gli standard del Nord. Quando Levin uscì dalla botola nel pavimento di assi, il comandante stava in piedi vicino all’unica finestra dello stanzone, un’apertura di spesso vetro piombato, che gettava all’interno una luce fredda.
    I penetranti occhi scuri esaminarono il nuovo venuto che si issava su per lo scomodo ingresso, con un’agilità notevole per l’età che dimostrava.
    I capelli di un biondo rossiccio gli incorniciavano il viso in ricci quasi da pecora, e la barba di media lunghezza non presentava ancora tracce di grigio. La sua vita indugiava sull’orlo della curva discendente del vigore, ma non l’aveva ancora imboccata.
    Tuttavia aveva anche un ché di spento nell’aspetto, come se dopo una lunga lotta il suo temperamento evidentemente energico iniziasse ad arrendersi al torpore gelido di quella torre dimenticata dagli dei.
    « Un vero piacere dite – commentò, con un’espressione cordialmente divertita – immagino dipenda dal fatto che iniziavate a temere che qui dentro fossimo tutti dello stampo del buon Jacov »
    Eppure, sotto alla patina di superficiale affabilità, non era difficile distinguere uno sguardo acuto, che non aveva smesso di soppesare lo sconosciuto da quando questi aveva fatto il suo ingresso.
    Quando questi dichiarò di non costituire una minaccia, Sir Kennan sbuffò dalle narici con un ghigno. Ma quella reazione significava che riteneva la precisazione superflua, oppure che la cosa era ancora da stabilire?
    « Non c’è pericolo che io sia troppo severo, credetemi. Non sono uno di quei fanatici della disciplina che fanno prendere a bastonate le sentinelle. Non ho mai pensato ne valesse la pena »
    La sala era ampia la metà della pianta della torre: una parete di legno la separava da quella che doveva essere la camera da letto del comandante. Gli arredi erano semplici: un tavolo di legno lucido, delle cassapanche decorate a motivi floreali, due poltrone davanti al camino, e diverse pellicce di animali della tundra a coprire il pavimento.
    « Io ne sto già ricavando qualcosa, ve lo assicuro, dal momento che fino a poco fa mi stavo annoiando terribilmente! Ma sedetevi… » lo invitò amichevolmente, facendo cenno ad una cassapanca, mentre a sua volta prendeva posto sulla sedia dietro il tavolo, in modo da trovarsi di fronte allo sconosciuto.
    « Mi domando – il suo tono, così come la sua espressione, erano cambiati repentinamente – però, che cosa pensiate di ricavarne voi, ser…? – strascicò le lettere, sollevando le sopracciglia, con accento apertamente interrogativo – Levin von Bennigsen. Un nome che non mi suona familiare. La visita non preannunciata di uno straniero che spunta solo e disarmato dal mezzo dell’Etlerth è un evento così singolare ed apparentemente inspiegabile che la mia mente, ve lo confesso, non ha fatto altro che formulare ipotesi da quando siete entrato. In una situazione normale, dove vigano costumi meno rilassati, avreste dovuto giustificare molto chiaramente la vostra venuta, prima di essermi condotto davanti. Ma qui – allargò retoricamente le braccia, ed il suo tono cambiò ancora, smorzandosi, come a non voler far sentire Levin oggetto di un interrogatorio troppo ostile – non siamo certo in una situazione normale. Perciò ditemi, senza tanti giri di parole, amico mio, chi diavolo siete, e cosa sperate di trarre da questa chiacchierata, per il piacere della quale vi siete fatto chissà quanti chilometri nel freddo più fottuto »
     
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    Levin ascoltò il comandante, non senza un velo di curiosità e malcelando una certa irrequietezza. Gli piaceva quell’uomo e lo riteneva diverso dagli altri. Al suo invito, si sedette sulla cassapanca, pur senza smettere di ascoltarlo. Al contrario, mentre Kennan continuava a proferir parola, Levin osservò la sua fisionomia, il suo viso barbuto e gli occhi scuri. Possibile che costui conosca la risposta che cerco? Si chiese, ma subito scacciò via questo pensiero. Non aveva prove di una cosa del genere: si stava ingannando a causa del carisma dell’uomo. Tamburellò le dita sulla cassapanca, annuendo di tanto in tanto alle parole dell’interlocutore. Quando quest’ultimo finì, Levin rispose con una grossa risata.


    “Cosa ne ricavo io? Ma guardatemi! Fino a pochi minuti fa ero in mezzo a quella gelida landa che tanto bene conoscete, mentre ora assaporo questo caldo e chiacchiero amabilmente con una persona intelligente”


    Disse, scandendo ogni parola per poi prendersi un pausa alla fine, come per assicurarsi che l’altra persona lo stesse seguendo. Una persona intelligente... Lo riteneva realmente tale. Decise perciò di giocare a carte quasi scoperte, evitando di celare troppo, pur senza rivelare ciò che tanto bramava.


    “Ho già tratto tanto, mio signore. E ben più di un palliativo per la noia posso essere per voi.”


    Pronunciando queste ultime parole si rilassò sulla cassapanca, tradendo la postura composta tenuta fino a quel momento. Poi guardò l’uomo dritto negli occhi, quasi tra le righe volesse dirgli “Ti rispetto, sì, ma qui siamo sullo stesso piano”.


    “Mi pare di capire che qui ci sono problemi di produzione, da un lato e - non abbiatene a male, ve ne prego - con la gestione delle guardie, dall’altro. Un paio di braccia in più, Sir Kennan, possono tornarvi più utili di quanto crediate”


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    L’allenamento marziale effettuato con suo padre ha reso Levin un ottimo combattente: schiva e colpisce con un’agilità ai limiti del sovrumano, per poi sferrare dei colpi incredibilmente potenti; la sua energia, in effetti, pare non finire mai. Passiva agilità 5 pt; Passiva forza 5 pt; Passiva 10% in più di mana 5 pt.
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    lla risata di Levin Sir Kennan rispose sollevando le sopracciglia. È vero che aveva smorzato il tono per non mettere il vecchio troppo in soggezione, ma quella reazione in qualche modo lo spiazzava. Tradiva un temperamento e una forza di carattere… interessanti. Era evidente che quel tizio stempiato e senza particolari tratti distintivi non era il classico seccatore che si poteva intimidire facendo la voce grossa.
    Si poteva dire quasi che stesse facendo il suo stesso gioco, alternando bonomia e velate dimostrazioni di forza…
    Il comandante poteva benissimo sbatterlo giù dalla torre a pedate veloce com’era arrivato, ma il pensiero sembrava non turbare troppo l’uomo, che si comportava come un ospite che avesse ricevuto un invito. Era un disperato senza niente da perdere, semplicemente uno sciocco, oppure quell’atteggiamento dipendeva dagli assi che nascondeva nella manica?
    Mentre i due uomini si sorridevano, in fondo alle pupille balenavano le loro anime d’acciaio.
    Alle ultime parole di Levin, però, fu il turno di Sir Kennan di ridere. Il vecchio giocava un po’ troppo in attacco, ma era… piacevole, una volta tanto, avere a che fare con qualcuno che non si guardava gli stivali masticando obiezioni che non aveva il coraggio di fare.
    Non aveva ancora deciso se quel “von Benningsen” indicasse che lo sconosciuto era un nobile o meno. Nel secondo caso, secondo l’etichetta di Najaza avrebbe avuto tutto il diritto di farlo bastonare nel cortile, per la dimestichezza che si stava concedendo con lui, un Cavaliere del Nord. Ma, come facilmente si poteva constatare dandosi un’occhiata attorno, Gyllkrav’yer non era Najaza.
    La cosa più spassosa, era che il vecchio non aveva affatto risposto a nessuna delle sue domande più o meno esplicite, né in merito al proprio rango, né alla propria provenienza, né agli esatti motivi per cui aveva bussato al portone, eludendole con molta nonchalance. Molto bene, Sir Kennan lo avrebbe assecondato, e vediamo dove sarebbe andato a parare.
    Non abbassò la guardia, ma si rilassò sulla sedia e sciolse la lingua, come se l’interrogatorio fosse già finito.
    « Di problemi di produzione, qui, ne abbiamo avuti dal primo colpo di piccone – il comandante prese un bastone che stava appoggiato alla scrivania e lo usò per dare un paio di colpi secchi sul pavimento, senza smettere di parlare – Sai che significa il nome di questo posto? Miniera d’oro. E sai quanto oro esce da quel buco infernale? – l’uomo fece un gesto osceno con la mano – neanche un grammo. La cava è stata aperta su consiglio di un mago che si era fatto pagare profumatamente per rivelare le coordinate di un giacimento d’oro. Quando si è scoperto che non ce n’era traccia, l’hanno impiccato, solo per scoprire che aveva lasciato al suo posto un fantoccio animato con un incantesimo. Lui se ne stava a prendere il sole in qualche posto meno ingrato di questo da chissà quando. Però alla fine, scavando ancora un po’, si è scoperto che c’era ben di meglio: rutenio. Non sai cos’è? Nemmeno io lo sapevo. A quanto pare è un metallo preziosissimo che piace ad alchimisti e gente del genere. Per ogni tonnellata di roccia che caca la miniera, noi tiriamo fuori pochi grammi di rutenio. Ma un etto basta a pagare una settimana di stipendio a tutti quanti, compreso quel porco del funzionario del Consorzio. »
    La botola che dava accesso alla sala si aprì cigolando, e quello che doveva essere un servo si arrampicò su dall’ultimo tratto di scale, reggendo fra le mani un vassoio su cui traballava un samovar d’argento.
    « Ho sentito che avevate un ospite, così ho portato una tazza in più, Sir Kennan. »
    « Dunque immagino che tu ne abbia portate tre, o mi sbaglio? – il comandante non lasciò che il vecchio servitore replicasse – riempitene una e vai pure a sederti davanti al camino, Ekki. »
    Il samovar finemente cesellato venne posato sul tavolo dalle mani tremanti e indurite dal gelo del famiglio, che si ritirò poi in silenzio su una poltrona in disparte.
    « Il problema – continuò Sir Kennan, mentre preparava lui stesso una tazza per sé e una per Levin – è che sembrerebbe che ora anche il rutenio si stia esaurendo. Non che Lady Gyllenstyerna abbia di che lamentarsi – il Cavaliere accennò automaticamente con il dito verso l’alto, quindi fece cenno allo straniero di prendere il suo tè fumante – quello che le abbiamo mandato in questi anni deve aver riempito d’oro più di qualche forziere. Ma tutte le cose belle finiscono, suppongo. Lo so io, lo sa la Vedova, lo sa il Consorzio. Se, però – e qui di nuovo il comandante fissò i propri occhi d’ebano in quelli di Levin, in attesa di cogliervi un segno di delusione – per caso qualcuno dovesse sentir dire che Gyllkrav’yer è il posto giusto per fare fortuna… beh, la voce gli sarebbe giunta un poco in ritardo. »


    Edited by T h e B a r d - 24/3/2021, 17:59
     
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    Viaggiatore dei Mondi

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    Levin ascoltò in silenzio le parole di Sir Kennan, senza distrarsi, né interromperlo, ma tenendo lo sguardo fisso su di lui, salvo spostarlo per fare un cenno di ringraziamento al servitore che aveva portato del tè. Tante, troppe informazioni stava ricevendo. Quella che doveva essere per lui una rampa per l’accesso alla nobiltà - e di conseguenza il primo, vero passo verso l’agognata immortalità - si stava rivelando un vicolo cieco. L’ennesimo, in 61 anni.
    Quando Sir Kennan terminò di parlare, Levin restò in silenzio per un po’, come per riorganizzare mentalmente il fiume di informazioni che aveva ricevuto, ma facendo ben attenzione a non lasciar trasparire esitazioni. Quel posto era dunque destinato al declino e all’abbandono? I problemi di Gyllkrav’yer, che pure aveva in parte intuito, si stavano rivelando maggiori di quanto immaginasse. Cosa poteva mai fare: proporsi come minatore? No, l’idea era fuori questione. Sarebbe stato come abbandonare ogni suo proposito e firmare - lì, su due piedi - la propria condanna a morte. Morte… Il solo pensiero lo fece rabbrividire. L’ammirazione, che ancora provava per l’interlocutore cominciava ad affiancarsi a qualcosa di estremamente simile all’odio. Perché quel Kennan non riusciva a trovare il modo di renderlo immortale? Forse avrebbe dovuto ucciderlo lì, seduta stante, e bere il suo sangue. Sì, quella sarebbe stata la maniera migliore di ottenere l’immortalità: cibarsi dell’altrui vita. Guardò per un attimo l’uomo, cercando di trovare un punto debole. Poteva colpirlo al collo, magari usando la tazza di tè come arma e… La tazza di tè. Dannazione, pensò. Possibile che quell’uomo avesse previsto la reazione di Levin e per questo aveva fatto restare il servitore nella stanza? Possibile che quell’uomo gli fosse così superiore? Ora rivolse l’odio verso di sé. Era inutile, incapace. Forse meritava davvero la morte. Infondo, l’immortalità era un lusso che non gli era stato concesso e che evidentemente non meritava. Cosa fare, dunque?
    Bevve un sorso di tè, per rilassarsi; riconobbe subito che stava vaneggiando e sul viso cominciò a prendere forma un solco simile a un sorriso.


    “Lady Gyllenstyerna…”


    Mormorò, sovrappensiero. La donna nominata prima da Kennan, evidentemente di status superiore a tutti lì. Era a lei che doveva arrivare. Bevve un altro sorso, e questa volta assaporò la bevanda, apprezzandone soprattutto il calore.


    “Sarò sincero con voi, Sir Kennan, tutto ciò che dite mi è nuovo. Non conoscevo Gyllkrav’yer e non posso che essere dispiaciuto per la situazione che sta vivendo ora. Voi mi piacete, davvero, non mento; cosa ne sarà di voi una volta che da questa miniera non si riuscirà più a tirar fuori questo… come lo avete chiamato? Rutenio giusto?”


    Disse, avendo riacquistato la calma. Era stato davvero autentico e onesto con quelle parole; stava realmente traendo piacere da quella conversazione. Tuttavia, ciò non bastava.


    “Avete nominato tale Lady Gyllenstyerna; il nome non mi è nuovo, vi dirò. Potreste dirmi qualcos’altro su di lei?”


    Terminò, tradendo la premessa di non pronunciar menzogne.



    Stato fisico: Illeso
    Stato mentale: Leggermente scosso
    Energia: 110%

    Passive:
    Vsevobuch
    L’allenamento marziale effettuato con suo padre ha reso Levin un ottimo combattente: schiva e colpisce con un’agilità ai limiti del sovrumano, per poi sferrare dei colpi incredibilmente potenti; la sua energia, in effetti, pare non finire mai. Passiva agilità 5 pt; Passiva forza 5 pt; Passiva 10% in più di mana 5 pt.
    [15 pt]
     
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