insediamento sorgeva in mezzo alla landa deserta come un dente cariato. Sarebbe stato visibile da leghe di distanza, se solo le bufere instancabili del Nord non avessero sollevato nell’aria un perenne velo biancastro. Era praticamente impossibile arrivarci per caso. Oppure, secondo un altro modo di vedere le cose, era l’unico modo. Per avvistare le grossolane mura di granito bisognava arrivarci davvero molto vicino, e anche allora si sarebbe stati incerti se quella sagoma scura fosse una formazione di roccia naturale, oppure un’opera umana. E se lo era, come non pensare che si trattasse soltanto di una rovina abbandonata? Le condizioni atmosferiche erano il primo livello di difese della cava. Naturalmente esisteva un tracciato che conduceva alle sue porte, ma sempre ben sepolto dal compatto strato di neve ghiacciata che tutto ricopriva, nell’Etlerth. Il tentativo meglio riuscito per segnalare la posizione della miniera, e per permettere di arrivarci, erano dei cippi miliari, più simili in realtà ai menhir di un antico culto. Disseminati a distanza regolare nella tundra, recavano incisa sulla superficie una freccia e un nome: “GYLLKRAV’YER” L’insediamento più vicino era un emporio commerciale striminzito, che viveva degli approvvigionamenti alla miniera. Ma era un traffico che andava in una direzione sola: i carri di viveri tornavano indietro vuoti, perché il frutto del lavoro dei minatori, di qualunque cosa si trattasse, non lasciava la cava a quel modo. Tutto attorno al fortilizio si erano accumulati, negli anni, i detriti espulsi dalla miniera, così che ora essa assomigliava alla tana di una talpa gigante o di un lombrico. I mucchi di roccia scaricati fuori dalle mura avevano finito per superarle in altezza, così quando l’insediamento era cresciuto di dimensioni, la nuova cortina era stata edificata direttamente sulla cima di quel baluardo involontario, compattato dal ghiaccio. I bastioni erano quasi sempre deserti: non c’era ragione di sorvegliarli notte e giorno; la nutrita guarnigione serviva solo “nel remoto caso in cui”, e passava le ore nelle saune, oppure allenandosi nella sala comune riscaldata. All’avamposto si accedeva da una sola entrata: una porta-torre squadrata, arcigna; il portone di legno rinforzato, che restava sprangato per la maggior parte del tempo, era lambito in alto da un grande stendardo irrigidito dal gelo, su cui si poteva distinguere il simbolo di una casa in fiamme e di una stella d’oro.