Endlos Realm GdR - Gioco di Ruolo Fantasy by Forum

Posts written by Šyd

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    Nickname: Šyd / BimboSperduto
    Numero di personaggi attivi: 2
    Tesoreria Coin: Link

    #1
    Personaggio: Leonard
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    #2
    Personaggio: Makor-Erenai
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    Uh...
    Al momento sto leggendo "Momenti straordinari con applausi finti" di Gipi. :win:
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    Sicuro? Qui? Beh…
    Il ragazzo si guardò ancora una volta intorno; nessuno in vista, almeno per il momento. Si trattava di un’area particolarmente selvatica della valle e, sebbene lì soffiasse al pieno delle sue forze il dolce canto del vento, sapeva abbastanza cose riguardo alle terre orientali da riservare un piccolo spazio per l’inquietudine, all’interno del suo cuore.
    La valle di Chediya è perlopiù sicura, ma è comunque meglio raggiungere un posto abitato al più presto.
    Si passò la manica sulla fronte per asciugare il sudore, che scendeva sulla pelle pallida, qui e là arrossata per il caldo – la tuta che indossava era pesante, per resistere all’aria fredda. Con le mani cercò di sistemarsi alla meglio i capelli rossastri, che dovevano aver perso di vista forbici e rasoio già da un po’, mentre pensava a quale potesse essere la meta più vicina; sarebbe stato semplice raggiungere la periferia più esterna di Istvan, volando verso sud per un’oretta ancora. Doveva solo ricaricare un po’ il suo mezzo, per evitare che il peso aggiuntivo di quello sconosciuto gli creasse problemi.

    ...sconosciuto?
    L’aviatore si fermò a pensare, per la prima volta da quando era cominciata quella sconclusionata operazione di soccorso, a chi aveva davanti. I suoi occhi scuri e lucidi scrutarono il corpo dello straniero; dovette sforzarsi di mantenere il controllo su sé stesso per non sobbalzare. Certo, non era la creatura più strana che avesse mai visto, ma la carnagione violastra, le corna e la coda lo colsero di sorpresa, soprattutto perché fino a quel momento non ci aveva badato.
    Era sicuro che il suo volto avesse tradito, per un attimo, questo stupore e si sentì in colpa. Allo stesso tempo però si domandava se fosse saggio far salire sul suo mezzo una creatura di cui non sapeva nulla. Si domandò come si sarebbe comportato suo padre; suo padre, si disse, non si sarebbe neppure fermato – non per cattiveria, ma perché troppo preso dal volo. Ma sapeva, in cuor suo, che suo fratello non lo avrebbe mai perdonato se si fosse azzardato ad abbandonare lì una persona in difficoltà.

    Si scrollò di dosso i pensieri e tornò vicino al suo velivolo; si mise ad armeggiare con qualcosa, prima aprendo lo sportello e poi cominciando ad assemblare – con una rapidità notevole, che rivelava un’ottima padronanza di quelle pratiche e di quegli attrezzi – quello stesso palo che, alla partenza, aveva smontato e riposto. Mentre ricollegava i circuiti disse allo sconosciuto:

    Adesso sistemo il mio mezzo e poi ti porto via di qui. Andiamo verso la città, così sarai al sicuro e un dottore potrà vedere se è tutto apposto! Va bene?
    Si fermò, riprese il fiato e poi aggiunse, con l’aria di chi si era dimenticato qualcosa di fondamentale:
    Io comunque sono Pierre, piacere!
    L’elica sulla cima del pennone prese a ruotare e il mezzo vibrò, come rinvigorito da quella spinta dolce, mentre delle luci sotto all’ammasso di cavi collegati dal ragazzo si accendevano in sequenza, rivelando che il velivolo metallico era tornato operativo.
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    Aveva calcolato a lungo le coordinate per quel salto. Sull’altopiano si arrivava percorrendo una salita dolce, lungo un sentiero ben curato circondato da erba e fiori, ma pochi alberi. Pochi alberi c’erano anche lungo il pendio che, più bruscamente, correva giù fino a valle: una condizione ideale per il suo volo. Il ragazzo ripiegò un lungo pennone in metallo tinto di bianco opaco; sulla cima era fissata una strana elica a quattro pale, dal profilo sinuoso. Ancora volteggiava, stuzzicando un circuito all’apparenza piuttosto intricato. Il giovane racchiuse quell’arnese all’interno di uno scompartimento del suo velivolo leggero: si trattava di un mezzo evidentemente progettato per un singolo pilota, con due parapetti di protezione, un sistema (piuttosto primitivo, se confrontato con il resto) per l’ancoraggio dei piedi e un meccanismo simile a una cloche, che dava l’impressione di essere molto robusto.

    Il decollo fu semplice: la brezza della valle di Chediya sembrava non aspettare altro. Il vento lo fece dondolare e, prima di azzeccare la corrente giusta, all’aviatore sembrò di trovarsi in mezzo a un mare indispettito. Ma quel posto era perfetto per far pratica, perché era la stessa aria a trasmettere un senso di pace e di calma; dopo un inizio un po’ barcollante, il mezzo si assestò e proseguì il suo volo silenzioso. Sembrava privo di peso.
    A un occhio attento non sarebbero sfuggite le modifiche effettuate sulla parte superiore dello scafo: si intravedevano ancora i segni delle forature – ora debitamente tappate, per evitare problemi di aerodinamica – che dovevano servire a sostenere una qualche struttura superiore. Solo un abitante dell’altopiano della tempesta avrebbe però intuito che cosa, un tempo, doveva essere stato collegato a quel piccolo mezzo di trasporto.

    Accidenti!
    La voce del ragazzino schizzò via in un attimo, trascinata dal vento che ora sferzava la sua faccia e gli toglieva il fiato. Stava sorvolando uno dei corsi d’acqua che spezzavano il verde della valle, quando gli occhi gli caddero su una figura umana che sembrava trascinarsi a fatica fuori da quel fiume. Intuendo che c’era qualcosa che non andava, l’aviatore planò delicatamente, disegnando in cielo dei cerchi sempre più stretti per poi atterrare con dolcezza – mostrando una certa padronanza del mezzo, nonostante la giovane età – sul manto d’erba.

    Ehi! Ehi! Ehilà! Tutto bene?
    Disse, con voce preoccupata e a tratti spezzata dal fiatone, mentre saltava giù dal velivolo. Corse verso l’uomo, togliendosi il copricapo in pelle marrone, sul quale erano state fissate delle lenti e due filtri per l’aria. La tuta che indossava sembrava, come il mezzo che pilotava, modificata: un tempo doveva aver avuto molti più strati, ma conservava una gran quantità di tasche e taschini. Il ragazzo non dava certo l’impressione di sapere molto bene come comportarsi, in materia di primo soccorso; si tolse i guanti in fretta e furia, ma rimase a guardare quell’estraneo con l’aria di chi vuole davvero far qualcosa, ma ha paura di combinare un pasticcio.
    Io… io”, balbettò, mentre con gli occhi qualcuno in grado di aiutare sul serio quel poveretto, “tu… tu! Come sei finito qui? Hai bevuto acqua? Riesci a respirare?
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    Ok, mandami un MP quando apri la discussione! :win:
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    Volendo ho un PNG in mente per Chediya!
    Per me è l'opposto: agosto è un mese di lavoro bello intenso. Ma se non hai problemi ad aspettare qualche giorno tra una risposta e l'altra, per me possiamo andare. :win:
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    CITAZIONE (Zenone @ 28/7/2021, 16:07) 
    Se è un invito lo accetto volentieri! :-D

    Devo ancora postare nell'apposita sezione per cercare qualcuno che abbia voglia di seguire il mio arrivo su Endlos!

    Oi, mi ero perso la risposta!
    Ho tempi notoriamente molto dilatati nei post, ma se ti va possiamo studiare qualcosa. :)
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    CITAZIONE (Zenone @ 26/7/2021, 14:57) 
    Syd, allora giravo con il nome di Iranu o di Marcos de Liaque, ma io non ero un giocatore particolarmente attivo, stavo più nelle sezioni di svago o su msn a chattare; di te mi ricordo di averti visto ma mi sa che non ci siamo mai veramente incrociati!

    Comunque odoro aria da rimpatriata da classe elementare, o da veterani di guerra! :D

    Ricordo i due nick, sì, anche se probabilmente non abbiamo mai giocato assieme davvero -- però per questo possiamo rimediare! :caffe:
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    Bentornato! :win:
    Al tempo ero in giro e sicuramente più attivo di adesso - ora come ora mi permetto qualche giocata saltuaria.
    Avevi un altro nick?
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    Come mai sto prendendo in considerazione la sua proposta? Non è tanto il fatto che quello spettro mi abbia chiesto di accompagnarlo, a stupirmi; rendersi conto di quanto questo mondo freddo sia riuscito a influenzarmi, in così poco tempo, mi scuote molto di più dell’idea di farmi una chiacchierata con un fantasma e passeggiare assieme a lui nel mezzo a un cumulo di rovine congelate, piombate sulla cima di una montagna partendo da chissà dove e da chissà quando.

    Ognuno ha i suoi fantasmi, Leonard.



    Che ironia: il tempo dà sempre ragione ai saggi. Me lo disse uno dei miei insegnanti, dopo l’incidente che tinse di rosso uno dei miei occhi. Va da sé che non si riferiva a questo, ma quella volta non mi sembrava un detto adatto a me. Sicuramente avrò pensato che c’erano eccezioni; eccola lì, ora, la mia eccezione. Con quel tono metallico di quella voce che rimbalzava su una superficie finalmente solida, lo spettro tende una mano che io non posso stringere.
    Sono rimasto già troppo tempo incastrato tra roccia, neve e ghiaccio. Se restassi su questa montagna sarebbe lei a vincere, presto o tardi.
    Non posso accontentarmi di un sì o un no. Mentre parlo, la mano libera dall’Atanor – che ancora si lascia scappare soffio di fumo e un filo di luce calda – scorre su ciò che resta di una delle pareti, ormai fin troppo ricca di finestre sul paesaggio circostante.
    Finirei così. Diventerei un monumento in rovina. Il massimo che potrei fare sarebbe continuare a combattere battaglie di altri, cercandone di simili a quelle che avevo nella mia vita passata.

    Gli occhi tornano sulla figura spettrale. Non posso farne a meno, ho una certa diffidenza che innesca subito degli automatismi, quando si tratta di creature sovrannaturali; il mio cervello si aspetta sempre una reazione ostile e mi comanda di stare attento.
    Posso accompagnarti, ma aspettati un compagno di viaggio diffidente. Nel mio mondo eravamo abituati a sparare alle creature… fuori dal comune.
    Non gli ho dato della bestia; è un primo passo.
    Ma immagino che questi proiettili non siano una grande minaccia, per te. Quale sarebbe la direzione?
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    Non saprei, non credo di poter essere d’accordo.
    Sentir parlare di ritorno a casa smuove dentro di me un sentimento cupo, che guarda in un’unica direzione: verso l’interno della mia anima. Non riesco a trovare neppure un briciolo di empatia da lanciare, come un appiglio, in questi casi. Mi succedeva anche nei brevi viaggi assieme ai soldati, durante quell’ultima avventura tra queste montagne.
    Queste montagne sono forse parte del problema. Anche io sono un relitto caduto dal vortice del caos, dopotutto. Non ho idea di cosa sia quello a cui si riferisce, né tantomeno cosa si intenda, da queste parti, con riscrittura. Ma tornare indietro sui miei passi, data la situazione in cui mi trovo imprigionato, è un consiglio che fa crescere in me una punta di rabbia.
    Sono stato sputato da quel vortice, in qualche modo che hanno provato a spiegarmi, ma ancora non capisco.
    Quella punta di rabbia infetta il mio tono di voce, che tradisce la mia insofferenza.
    Gli unici passi che ho fatto, da allora, li puoi vedere nella neve di questa montagna. Ho attraversato sentieri, combattuto bestie assurde, trovato e perso commilitoni.
    Vorrei aver avuto il tempo di conoscere e imprimere nella memoria almeno qualcuno dei loro nomi. Così ora potrei sentire di aver avuto un legame, seppur vago e dettato dalle circostanze, in queste terre così amare.
    Dovrei seguirli a ritroso, per poi cercare di saltare abbastanza in alto da tornare in mezzo a quel vortice?
    Ancora una volta guardo dentro di me e solo dentro di me. Sono ingiusto: mi trascino, forse per noia o forse per confusione, dietro a questo spirito che ha i suoi motivi per essere qui – è evidente, li stringe tra le mani che pure non credevo riuscissero a trattenere qualcosa. Per lui, il discorsetto dei passi indietro ha funzionato.
    Perdonami”, gli dico, riportando un po’ di calma nella mia voce. “Sono sensibile all’argomento. Ma è un bene che, almeno nel tuo caso, tornare indietro abbia funzionato.”
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    Dunque la tempesta non è letale soltanto per ciò che si trova fuori da questo mondo. Tutto è minacciato dal caos: fare lo storico o l’archivista, da queste parti, non dev’essere una passeggiata. Nelle rovine dove lo spettro mi ha trascinato respiro un’aria familiare; quell’architettura decaduta ha in sé un eco della cattedrale dove sono cresciuto. Per un attimo mi sono sentito a casa – un pensiero fugace, sfortunatamente, ma ora forse capisco cosa prova quell’essere, che mi porta in giro come un cagnolino. Sarà stata opera di esseri umani, anche questo edificio? Magari gli uomini, in diversi universi e tempi diversi, avevano finito per sviluppare tecniche simili. O forse una scoperta particolarmente rilevante riecheggia nell’universo, e l’idea si accende a catena in menti che non si incontreranno mai.

    Quante cose nascondono queste montagne?” gli domando, mentre cerca con grande attenzione tra quelle macerie senza tempo. Mi chino, controllo bene il terreno in più punti: quel posto sembra essere immacolato. Neanche le tracce del passaggio di qualche animale; questo è, a pensarci bene, più strano. Un posto simile potrebbe attirare qualche bestia in cerca di riparo, ma forse lo percepiscono come qualcosa dal quale tenersi alla larga.
    Non credo che quello che cerchi sia stato portato via da altri: sembra che nessuno metta più piede qui da molto tempo”, gli dico, mentre stacco da uno dei ruderi un aculeo di ghiaccio lungo quasi quanto il mio avambraccio.

    Mi siedo in un angolo, tenendo l’Atanor ancora acceso tra le mani. Piccole nuvolette di fumo escono dai buchi finemente lavorati del forno, mentre cerco di tenere per me anche la più piccola briciola di calore. Faccio lentamente sciogliere il ghiaccio, lasciando colare le gocce nella borraccia.
    L’esercito al quale mi ero unito aveva combattuto altre battaglie, per distruggere degli oggetti noti come filatteri”, gli spiego, mentre continuo ad accumulare acqua preziosa, “e, prima che mi risvegliassi qui, stavamo per partire per l’ultima battaglia. L’obiettivo era una creatura molto potente, un Lich. La gente del luogo sperava che, distruggendo quella creatura, si sarebbe spezzata la maledizione che avvolge, col suo alone di morte, questo presidio congelato.
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    Lo spirito non ne è a conoscenza; lo spirito non è qui per me. Ma ha una cosa che a me, in questo momento, manca: una direzione. Si incammina verso quel dove, dandomi le spalle. Se si fosse trattato di un’altra bestia, lo avrei considerato come un regalo inatteso. Gli avrei sparato, anche solo per capire che effetto avrebbero sortito i proiettili; è buffo, ripensandoci ora, quanto l’artiglieria, nel mio mondo d’origine, fosse usata per dare il benvenuto, durante la caccia. Il mio mondo d’origine, già. Maledetta sia sempre quella tempesta, che di lì mi ha tolto.
    Se fossi lì, se fosse un altro giorno, se fossi quello che ero, agirei diversamente.
    Ma non lo sono, non più -- non adesso -- e chissà se tornerò mai a esserlo. Per questo dissotterro i miei piedi dalla neve e faccio un passo verso lo spirito, seguendolo.

    Dove?”, gli chiedo, nascondendo la prima parte della risposta. Ormai è implicita: sto già andando assieme a lui.
    Che avrei dovuto fare? Non posso ancora evitare di sentirmi giudicato da un’istituzione che è lontana anni, ere, universi: che cosa stupida, la mente. Neppure questo freddo riesce a impedirmi di formulare pensieri del genere. Comunque, il gelo avrebbe avuto ragione di me, presto o tardi. Già posso ritenermi fortunato a non essere morto, dopo essere rimasto indietro rispetto al resto dell’esercito.
    Ammesso che ci sia ancora quel manipolo di disperati, su questa montagna maledetta. Sulla quale io, maledetto dal sangue di creature immonde, pedino uno spettro autodidatta in materia di maledizioni. Non c’è male.

    “Questo posto è ancora più morto di te”, dico sospirando. Tra due cumuli di rocce ci sono dei piccoli ramoscelli secchi, anneriti dal tempo. Li strappo e, camminando, li riduco in piccoli pezzetti; prendo, da sotto il mantello, l’Atanor. Il piccolo forno è gelido: soffio tra le sue parti cave, spargendo in giro una piccola nuvola di polvere e ghiaccio. Adagio con cura i pezzi di legno nella camera di combustione -- le mani mi tremano un po’ e ho poca sensibilità: lascio in giro un po’ di briciole. Una scia di punti neri sulla neve bianca.
    Accendo, con un po’ di pazienza, il fuoco nel piccolo forno. Non c’è un procedimento alchemico che mi spinge a dar via a quella minuscola fiamma: è il calore stesso a interessarmi, ora. I miei maestri direbbero che è una bestemmia, usare uno strumento così raffinato per farne un fuocherello da campo.
    Al diavolo. Quei maestri non si sono mai trovati sul dorso di una montagna innevata. Darebbero fuoco a tutti i loro libri, pur di scaldarsi per cinque minuti.
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    Questo mondo sta andando davvero a rotoli, oppure è il mio occhio maledetto a portarmi sfortuna? Con tutti i posti in cui era possibile svegliarsi, ero capitato in una rovina infestata dagli spettri. L’innocenza… annoiata con la quale quella creatura mi ha rivelato la sua natura è sconcertante. Ho passato anni a dare la caccia a bestie deformi, mutazioni oscene che trasfiguravano i volti e i corpi degli uomini, senza mai trovarmi davanti a un qualcosa di altrettanto soprannaturale che non aveva come primo intento quello di uccidermi, sbranarmi o avvelenarmi a morte. E ora trovo prima uno spirito profeta, quindi uno annoiato.
    Leonard”, rispondo, perché quella domanda ha fatto scattare una sorta di meccanismo automatico che, di norma, dovrebbero innescare solo i miei simili.
    Il mio nome è Leonard.
    Le rovine intorno a noi non raccontano molte storie. Bisognerebbe scavare sotto gli strati di roccia franata, detriti e ghiaccio per cominciare a intravedere delle risposte. Cercare il motivo del nostro incontro in quello che ci circonda sarebbe inutile. Almeno per me.
    Ma non credo, d’altra parte, che si tratti di un sogno o di un incubo. Il freddo mi sta stringendo i polpastrelli e sento le gocce di condensa poggiarsi sulle guance ancora coperte. Ma dove sono finiti tutti? Questo pensiero è un martello su un’incudine, e la mia testa sta lì nel mezzo.
    Che cosa ci faccio qui? Il primo spirito che ho incontrato sembrava avere intenzione di rivelarmelo e, se devo essere sincero, speravo che tu finissi quello che lui aveva cominciato.
    Senza fare movimenti bruschi ripongo la pistola. Non tanto perché io mi senta al sicuro -- che cosa ne so, di cosa può fare uno spettro? Che cos’è, di preciso, in questa realtà confusa, uno spettro? -- ma perché ho la sensazione che i miei proiettili non vadano a nozze col suo corpo.
    Ero insieme a un esercito. Stavamo per partire, alla ricerca di una creatura maledetta da abbattere, di una maledizione da spezzare. Ma dal momento della partenza a ora non ho idea di cosa sia successo. Ammesso che sia successo qualcosa.
    Rispondo, senza avvicinarmi a lui di un passo. Un conto è riporre l’arma, ma correre tra le braccia di un qualcosa di sconosciuto è tutt’altra faccenda.
    Anche se, vedendoti, mi viene da pensare che la maledizione sia ancora in piedi.
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    L’ultima cosa che ricordo è una partenza.
    C’era un piccolo esercito radunato, pronto a muovere guerra contro qualcosa. Facce diverse, con occhi che vedevano mondi diversi; la bocca di uno sputava trepidazione mentre le dita di un altro, che trottavano senza sosta sul tavolo dell’accampamento, scavavano nel legno un posto dove nascondere la paura. Io ero con loro. Io andrò là, avevo detto, o una cosa del genere. Sento ancora il sapore di quelle parole in bocca e posso quasi vedermi mentre le lascio a mezz’aria. Ma sempre di passato si tratta. Tra quel momento e il tempo presente c’è stato altro, basta guardarsi intorno per capirlo.
    Sento ancora qualcosa, dalla punta delle dita che il freddo estremo ha tinto di viola. Il resto della mano è ancora racchiuso nei guanti logori di un tempo, ma le ultime falangi sono rimaste scoperte durante questo sonno involontario, che ancora non riesco a spiegare. Con la schiena poggiata su quel che resta di un muro in pietra, tranciato a metà da chissà quale sciagura, cerco di intravedere se, oltre la neve che continua a cadere, lenta, c’è qualcosa che posso riconoscere. Il dorso del drago di pietra, sì, quello è ancora lì. Sono ancora in questo mondo strano, dopotutto: casa mia è ancora perduta.
    Il mio occhio rosso mi avverte della presenza di qualcosa: vedo la traccia che il suo spirito lurido lascia nell’aria. Il corpo deve essere quello di un umanoide, e si sta trascinando lentamente verso di me. In attesa che anche l’altro occhio possa vederlo, lascio che la pistola scivoli lentamente fuori dal fodero. Mi chiedo se le mie dita saranno in grado di rispondere a dovere, al momento giusto.

    Cacciatore, dove scappi?



    La sua voce è stridula, sembra nascere da lontano. Mi conosce ancora prima di potermi vedere: almeno in questo siamo simili. I suoi passi sono leggeri, lenti – li sento scavare piccoli solchi sulla neve fresca. Solo un’altra parete, o quel che ne resta, ci separa e qui ho già un proiettile pronto a partire, quando cadrà anche quest’ultima barriera.
    Vedo prima apparire gli stracci logori che porta addosso: scure, pesanti stoffe avvolgono il suo corpo, lasciando scoperto poco, quasi nulla. Non ha armi e il suo corpo non sembra essere mutato in qualcosa di pericoloso. Eppure cresce in me un senso di inquietudine che mi irrigidisce i muscoli e accelera il fiato; non riesco a controllarmi, mi sento in pericolo. È una minaccia, è una minaccia e devo reagire immediatamente. Striscia oltre il muro diroccato, si mostra a me senza difese, a braccia aperte, anche dopo aver dimostrato di sapere cosa sono. È una minaccia, non c’è dubbio.
    Sparo un colpo di pistola, mentre realizzo quanto artefatta fosse quella paura che già corre via dal mio spirito, mentre le vesti della creatura cadono a terra. Dell’essere non c’è alcuna traccia. A terra non vedo impronte, tutto è immobile. Il mio occhio rosso non percepisce più niente. La macchia del suo animo è svanita, lasciandomi solo in quel mare bianco e quieto.

    I Re dormono, ma i loro servi sono svegli. E nel profondo della notte eterna, nascosti dall’accecante bagliore del mare di stelle che tu neppure riesci a scorgere, qualcosa di più ancora più grande vi osserva.



    La voce è l’ultima parte di quella creatura a lasciare l’esistenza. Rimbomba nella mia testa come un tuono, preme sulle mie costole e mi frena il fiato: cosa significa? Quella montagna era un luogo di domande, che nascondeva le risposte sotto ere di ghiaccio e neve. Non posso più starmene qui, fermo, ad attendere una morte che sembra essersi dimenticata di me, dopo avermi visto addormentato in quelle rovine. Mi alzo in piedi, svettando oltre quei muri diroccati che mi riparavano, alla buona, dal vento gelido. Davanti a me c’è qualcos’altro.
    Come ho fatto a non vederlo prima? Ai piedi di una scalinata c’è un essere dall’aspetto lugubre: ha un volto da giovane, ma composto da pelli diverse cucite tra loro, quasi si trattasse di una bambola di pezza. Non è un essere umano, stando al dolore che sento trafiggermi l’occhio rosso mentre lo fisso. Non serve che io alzi la pistola; non mi sento minacciato e, se è qui da un po’, di certo sa che sono armato. Ma come mai non l’avevo notato prima? L’altra creatura mi aveva rapito del tutto i sensi? Sposto per un attimo gli occhi da quello sconosciuto; li mando verso il punto dove, poco prima, si era mostrata a me la figura incappucciata. Del suo pesante mantello non c’è più traccia.
    Cosa sei?
    Chiedo, infrangendo il silenzio, allo sconosciuto ai piedi della scalinata. Tra noi un velo di neve continua a scendere dal cielo. Il Koldran è un luogo di terribili visioni, trattenute dal gelo in attesa di viandanti incauti.
195 replies since 24/3/2005
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